Abbiamo parlato con il fotografo ungherese che fa ritratti super ricercati

Tra citazioni storiche e materiali di recupero, l’incontro con Szilveszter Makó è un viaggio tra disciplina e imprevisto: luce naturale, set riciclati ed echi dal Rinascimento al Bauhaus

Tra citazioni storiche e materiali di recupero, l’incontro, anche visivo, con Szilveszter Makó — artista e ungherese che costruisce set fotografici con materiali riciclati e luce naturale — è un viaggio nella disciplina e nell’imprevisto, dove la “scatola” ordina e amplifica lo sguardo. Echi del Rinascimento, del Dada e del Bauhaus attraversano ritratti di Willem Dafoe, Cate Blanchett e Monica Bellucci. Ne abbiamo parlato con lui.

Numero Paris cover 2023 by Szilveszter Mako
Numero Paris cover 2023 by Szilveszter Mako

L’intervista all’artista Szilveszter Makó

La “scatola” è diventata un elemento iconico del tuo lavoro.
Per me è insieme costrizione e liberazione. Centra il soggetto e al tempo stesso lo amplifica, impedendo che l’energia si disperda nell’inquadratura. I miei sensi reclamano ordine: mi sento a mio agio nella disciplina dei confini. Un telaio geometrico mi permette di muovermi senza perdermi nell’apertura dello studio. È un rifugio, una struttura di messa a terra, una regola. Mi evolvo con la scenografia in modo naturale. Gli elementi emergono e, quando non possono più essere reinventati, svaniscono lentamente.

Come è cambiato il tuo sguardo nel tempo?
Ho costruito strutture in molte forme, traducendo set più vecchi e dando loro nuova vita. Oggi il mio sguardo si è spostato verso il bidimensionale, dove le prospettive collidono e la cornice si appiattisce in qualcos’altro. Non so prevedere se e come la “scatola” si dissolverà. I miei set maturano con il tempo e con i motivi del quotidiano. So però che non inseguo l’eclatante: cerco la semplicità, e non c’è nulla di più semplice di una scatola.

Lavori su uno “spartito” rigoroso di gesti e pose, o preferisci lasciare spazio all’imprevisto?
Ci sono pose che mi accompagnano da anni, le gambe spalancate, certe gestualità delle dita. Sono marcatori temporali di stagioni diverse della mia vita. Queste pose sono una base a cui posso sempre tornare: mi piacciono esteticamente, bilanciano la mia pratica e mi danno pace. Le inserisco in una storia per ancorare l’immagine. Detto questo, chiamo l’imprevisto. Sul set lascio un grande spazio alla spontaneità e lo proteggo con cura. Anche nel lavoro commerciale metto in guardia i clienti dall’essere troppo rigidi. Il controllo eccessivo raffredda e calcola le immagini, togliendo senso. Un set deve respirare, sorprendere persino chi lo sta creando. Quando entriamo in studio, tutto ciò che abbiamo preparato – oggetti di scena, costumi, progetti – si ammassa in una stanza. Mi piace vederli collidere. Ciò che immaginavamo non sempre vuole nascere nella forma prevista. A volte l’idea rifiuta la forma che le abbiamo dato: allora le diamo un’altra vita. Il momento più emozionante è proprio questo: partire dalla base delle pose e poi lasciare che l’imprevisto interferisca con la storia. È quella tensione tra controllo e abbandono a tenere vive le immagini.

Hai parlato di un processo di post-produzione “segreto”. È una ricerca di perfezione o un atto di sottrazione?
Io non lo chiamerei un “segreto”, piuttosto non ortodosso, dispendioso in termini di tempo e ormai raro. Chi conosce la storia della fotografia analogica potrebbe riconoscerne i passaggi; per altri resterà invisibile, e preferisco così. La mia post-produzione non insegue la perfezione, ma l’idealizzazione. Preferisco sostare sul margine romantico dello sguardo, dove la realtà inizia a deformarsi. Inseguo l’ideale come gli antichi greci scolpivano il marmo: non copiando la vita, ma piegandola in forma di racconto. Non sento il bisogno di tenere uno specchio davanti al mondo e costringere le persone a confrontarsi con la sua crudezza. Voglio che le mie immagini respirino nel territorio in cui tornano i sogni e si sveglia l’immaginazione.

Bellezza e verità negli scatti di Szilveszter Makó

Fino a che punto sei disposto a “ferire” la bellezza per restituirle una verità?
Mi discosto dall’uso corrente della parola “bellezza”, perché per me è espansiva. Non martirizzo la bellezza: la trovo nell’unicità. Ciò che altri chiamano differenza o stranezza è spesso ciò che mi colpisce più a fondo. Quanto più qualcuno è distintivo e radicato nella propria identità, tanto più mi appare bello. Non mostro “verità”, perché non sono un fotografo documentario. Le mie immagini non sono specchi di ciò che esiste: appartengono a un’altra dimensione, il paesaggio della mia mente. Quando qualcosa mi attrae, mi chiedo perché mi sono fermato proprio lì, quale elemento mi ha attirato. Individuato quel dettaglio, lo porto nel lavoro e provo a farlo aderire alla mia estetica. Questo, per me, è davvero l’ispirazione.

La tua traiettoria visiva ha abbracciato il Rinascimento per poi aprirsi a Dada e Bauhaus.
Nel mio lavoro i passaggi tra epoche e stili avvengono in modo naturale. Quando sento il richiamo di un nuovo periodo o linguaggio, cerco l’elemento che mi parla e poi rimodello l’esperienza secondo le regole che mi do, le restrizioni che mi impongo. La coerenza nasce proprio da quel confine autoprodotto. Lo faccio in modo subconscio, come un’abitudine o un effetto del mio stato mentale. Dico spesso che il 95% di ciò che vedo non mi piace e solo il 5% sopravvive, ma quando raccolgo quei frammenti, l’esito è inevitabilmente mio. Per questo posso muovermi tra Rinascimento, Dada, Bauhaus o folklore senza perdere identità: l’identità viene dal filtro stesso, dalla disciplina, dalle restrizioni e dal mio modo di vedere. Questo viene talvolta scambiato per mancanza di studi, ma conosco le storie e le ideologie. Non comincio finché non comprendo il contesto sociale di quei movimenti. Semplicemente non traggo con me la teoria: porto con me l’impatto visivo.

Quanto è importante per te che il pubblico riconosca citazioni e riferimenti nel tuo lavoro?
Io non faccio immagini per cambiare il mondo: le faccio per me. Sono le mie ossessioni rese visibili, il mio modo di esistere e di fare esperienza. È il desiderio di fabbricare ciò che vedo, anche se esiste soltanto nella mia mente. Mi stupisce di essere finito in quest’industria: sembra inatteso. Ma devo vivere, e come chiunque devo lavorare. Dubito che qualcuno possa guardare un’immagine dal mio stesso punto di vista; non è questione di ricordare il momento esatto, è che non ci sono parole che catturino ciò che percepisco nella fotografia: è un sentimento interno, intraducibile.

I grandi ritratti di Szilveszter Makó

Hai ritratto figure come Willem Dafoe, Cate Blanchett, Monica Bellucci e Solange. Come costruisci il momento in cui il soggetto si affida al tuo sguardo?
Io non tratto le celebrità diversamente dagli altri: entriamo in studio da pari. Il set non è una gerarchia, è uno spazio di lavoro condiviso. Non avverto i confini di cui spesso si parla: il timore di chiedere troppo o l’imbarazzo del come comportarsi. Queste cose non mi appartengono. Quando arrivano, spesso iniziamo a parlare di questioni insolite, cose strane che non ti aspetteresti tra due persone appena conosciute. Quell’onestà e imprevedibilità creano un terreno comune. Credo che li faccia sentire in buone mani. Lo ripeto: possiamo provare, spingerci in nuove direzioni, ma non c’è rischio. C’è sempre un senso, una logica, in ciò che chiedo. Con Willem Dafoe gli ho spiegato perché volevo costruire quella casa, da dove proveniva l’idea, cosa significava. Perché desideravo quella faccia, perché l’ho messo nell’angolo come un bambino in castigo. Una volta compresa la logica, si è affidato al processo. Raramente si resta estranei sul set: parliamo, ci connettiamo, scambiamo visioni. Non è questione di diventare amici, ma di creare una partnership temporanea, due persone fianco a fianco in totale apertura. Comunicazione diretta e senza filtri: è ciò che rende possibile l’immagine.

L’uso di materiali riciclati nei tuoi set è insieme una scelta etica e una firma estetica. 
Non sono solo un bene per la terra, ma anche per il portafoglio. Se qualcosa non va sostituito e c’è una soluzione più economica, quella è la strada giusta. Troppo spesso si cerca la scorciatoia per arrivare prima. È la riluttanza a cercare, reimmaginare e riutilizzare che mi irrita. Lo spreco per comodità non ha senso. Lavorare con materiali riciclati richiede fatica: bisogna guardare, adattarsi, metterci impegno, e il lavoro guadagna un altro strato di significato. Valorizzo ciò che è più dispendioso in termini di tempo: il cartone come elemento base, il legno che ha già vissuto venti vite. È lì che sta la bellezza. È lo spreco il vero nemico della creazione.

Alessia Caliendo

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Alessia Caliendo

Alessia Caliendo

Alessia Caliendo è giornalista, producer e style e visual curator. Formatasi allo IED di Roma, si è poi trasferita a Londra per specializzarsi in Fashion Styling, Art Direction e Fashion Journalism alla Central Saint Martins. Ha al suo attivo numerose…

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