Il cuore austero della poesia. Intervista al poeta Giancarlo Pontiggia

Nato a Milano nel 1952, il poeta ha pubblicato, diverse raccolte poetiche e nel 2025 è stato in cinquina al Premio Strega. Lo abbiamo intervistato

Era autunno, forse, ma nemmeno tanto,
perché c’era ancora qualche spicchio di azzurro, sopra,
ed era bello
mescolarsi alla polvere del mondo, pensieri
scuri come il vino gioivano di quell’aria,
che si faceva a poco a poco più bruna,
qualcosa
ricordava qualcosa, come una tensione, un premere
delle cose sulle cose, l’ombra
scivolava dentro i vetri, frugava

nel fogliame dei secoli

Sembra quasi che la cinquina del Premio Strega Poesia del 2025 sia composta in larga parte da raccolte ragionate, depositate, bisognose di un’incubazione pluriennali. Dopo la precedente intervista a Tiziano Rossi, il cui libro ha richiesto una latenza di ben venticinque anni, è il turno di un altro poeta dalle lunghe attese.

Chi è Giancarlo Pontiggia

Giancarlo Pontiggia nasce a Milano nel 1952, ha pubblicato le raccolte poetiche Con parole remote (Guanda, 1998; nuova edizione Vallecchi, 2024), Bosco del tempo (Guanda, 2005), Il moto delle cose (Mondadori, 2017). Per il teatro ha scritto Stazioni (Nem, 2010) e Ades. Tetralogia del sottosuolo (Neos, 2017). Saggi di poetica e riflessioni sulla letteratura si trovano nei volumi Contro il romanticismo. Esercizi di resistenza e di passione (Medusa, 2002), Lo stadio di Nemea (Moretti&Vitali, 2013), Undici dialoghi sulla poesia (La Vita Felice, 2014), Nuovi dialoghi sulla poesia (Amos, 2022), Origine (Vallecchi, 2022). Traduce dal francese e dalle lingue classiche. Quello che segue è lo stimolante dialogo che abbiamo avuto con lui.

Intervista a Giancarlo Pontiggia

Giancarlo, La materia del contendere esce per Garzanti a otto anni dalla sua ultima raccolta, Il moto delle cose (Mondadori, 2017), e dalle note al testo si evince essere – almeno in parte – costituita da appunti, poesie per riviste e frammenti di progetti sparsi; e dunque non essere stata concepita come silloge fin dalla sua origine. È così? Ci racconta com’è nata l’idea di quest’opera?
Ho sempre pensato che i libri di poesia debbano imporsi da soli, quasi per virtù propria, poesia dopo poesia, fino a che non compare un disegno, o almeno qualcosa che faccia intravedere un disegno più o meno compiuto. Qualcosa che sta al confine tra ispirazione e disciplina, forze del caso e aggiustamenti progressivi. Ogni poesia è figlia di un sentire che non è in noi, ma nasce in noi venendo da lontano, come se fossimo abitati da un respiro che si fa ritmo, immagine, pensiero, per ritornare – ma arricchito e trasformato in questo suo tragitto – a quel respiro originario. Poi, com’è inevitabile che sia, quando intravedi il disegno, e ti pare di percepire una musica che sta crescendo in te, e scorgi con sempre maggiore limpidezza i temi che vanno orchestrandosi nel gran disordine delle cose, allora vuol dire che è giunto il momento di metter mano al libro, di levare ciò che non è necessario, di aggiungere ciò che mancava, di definire il mosaico in ogni sua parte. La poesia, come la vita, viene dal caso, ma poi richiede che qualcuno se ne prenda cura, le dia una forma. E i poeti sono innanzi tutto degli ascoltatori del mondo.

Lei è stato professore di letteratura latina e italiana nei licei e ha contribuito a scrivere – tra le altre cose – diversi testi scolastici. Quanto e cosa c’è, tra i suoi versi, delle materie e degli autori che ha insegnato per lavoro?
Lo scorso anno ho ripubblicato con Vallecchi una nuova edizione della mia prima raccolta poetica, Con parole remote, uscita nel 1998 per l’editore Guanda. Gran parte delle poesie che sarebbero andate a comporre il libro era nata ai margini delle mie note intorno agli autori di cui man mano mi occupavo: e non parlo solo di poeti, ma anche di filosofi morali come Seneca e Marco Aurelio, o di storici come Tacito e Ammiano Marcellino. Ma dentro quei versi, come dentro quelle mie note di studio, non c’era solo il mondo greco-latino.

Cosa vi hai trovato?
C’era tutto il vasto, e intricato, e contraddittorio mondo novecentesco di cui mi ero nutrito: e parlo degli studi sul paesaggio di Rosario Assunto, che mi avevano spinto a leggere le Bucoliche virgiliane entro un orizzonte di giardino (di giardino come mimesi del paesaggio); o la poetica dello spazio di Gaston Bachelard, al quale devo la mia personale interpretazione di poeti come Lucrezio, Tibullo o Orazio; o gli studi antropologici ed etnologici che tanto avevano influenzato il Pavese dei Dialoghi con Leucò, e che avevano finito, fatalmente, per influenzare anche la mia lettura dei tragici greci. E naturalmente tutta la grande galassia dei poeti novecenteschi, dai mitici Ossi di Montale al tardo Luzi degli anni Novanta.Voglio dire che il passato che ritorna, non ritorna mai uguale a se stesso; e che ciò che chiamiamo modernità, è sempre il risultato di una tensione dialogica e di una disciplina interiore. Siamo moderni perché siamo antichi, e così antichi da aver fatto il gran salto nella dimensione dell’arcaico, che è una delle grandi scoperte degli ultimi due secoli.

Giancarlo Pontiggia
Giancarlo Pontiggia

Rimanendo sul tema dell’istruzione: cosa pensa dei programmi ministeriali italiani e del modo in cui oggi viene insegnata la poesia ai ragazzi? Se le venisse affidato il compito di rivedere la prassi attuale proponendo un’alternativa, che caratteristiche avrebbe quest’ultima?
Quello che sta accadendo nel mondo occidentale è qualcosa di sconvolgente e dagli esiti incerti. La debolezza dei partiti politici tradizionali, il basso livello culturale dei suoi funzionari, la fragilità del mondo intellettuale e accademico, l’irrazionalismo sempre più diffuso negli strati popolari, e non solo popolari, sempre più proni al pensiero magico e a una visione emotiva della realtà, hanno determinato uno sgretolamento progressivo del concetto di cultura, e un sostanziale discredito di ciò che è parola, pensiero, altezza morale dell’ispirazione. Proporrei a chi ha la responsabilità di disegnare nuovi programmi ministeriali, di andare a leggersi alcune delle grandi riflessioni che hanno visto la luce negli anni Ottanta: Un occidente prigioniero o la tragedia dell’Europa centrale (1983) di Milan Kundera; l’Intervista sul cinema rilasciata da Fellini a Giovanni Grazzini, sempre nel 1983; Vere presenze di George Steiner, una conferenza tenuta a Cambridge nel 1985, poi raccolta in quello straordinario volume che si intitola Nessuna passione mai spenta (1997), e dove già si parla di una «civiltà del dopo-parola».

Spiegaci meglio
L’Europa – questo era il tema di quei saggi – non crede più da tempo alla propria storia; ed Europa significa pensiero, lumi, democrazia, studia humanitatis. E gli insegnanti sono ormai ostaggi delle famiglie, come i politici dei propri votanti. Il problema non è come leggere, o insegnare, poesia, ma come restituire alla scuola il suo valore formativo, come far sentire la bellezza e la necessità di un dialogo platonico o di un teorema matematico. Se la scuola avrà fatto questo, la poesia verrà da sola, se vorrà venire. Anche perché ogni atto estetico è sempre un atto etico, e da qui, da questo assunto, si deve cominciare.

I suoi versi sembrano parlare sempre di un qualcosa di sideralmente lontano e rarefatto eppure al tempo stesso viscerale, intimo. La poesia è più una cosa interna o esterna rispetto a noi e alla nostra componente più corporea?
La poesia è un’esperienza che nasce dall’intelligenza e dalla sensibilità, si nutre di vita e di mondo, esige disciplina, uno sguardo severo sull’animo umano, il respiro della storia. Una delle prime poesie del mio nuovo libro si intitola Un secchio (Origini), e parla di qualcosa che sta all’inizio: e quell’inizio non può che essere il mio, e dunque fatto della materia campestre e contadina di cui si è permeata la mia infanzia. Questa poesia finisce così: “C’è un cuore austero/ prima di ogni verso/ e sogni, e cieli, e intonaci/ e tutta la vita del mondo/ che stride, gorgoglia/ come un ranocchio di fiume / al suo primo salto”. Noi tutti, all’inizio del nostro vivere, siamo come quel ranocchio al suo primo salto.

In che senso?
Poi seguiranno altri eventi, e altre esperienze: incontri, sensazioni, luoghi, e tutto ciò che a poco a poco – quasi impercettibilmente – entrerà nel disegnodei nostri giorni. Ma senza “un cuore austero”, come potremmo annodare i fili del nostro sentire? E senza un lavoro rigoroso sulla lingua, sui nomi che fermentano, che oscillano, che dicono sì e no, come potremmo dar forma a una poesia dotata di una sua urgenza espressiva, di una sua necessità storica? Tutte le forze in gioco sono sempre materiali. Eppure, da quella materialità esce fuori qualcosa che osiamo definire spirituale, o che almeno sembrerebbe possedere quei caratteri. La poesia è questo essere urtati dalle cose del mondo come se ci dicessero qualcosa, spezzando ogni barriera tra dentro e fuori, moti del cuore e leggi della natura, miracolo e necessità.

Che aspettative ha per il Premio Strega Poesia 2025 e cosa ha significato per lei l’approdo a questa cinquina?
Per un pavesiano come me, è difficile dimenticare la foto che ritrae Cesare Pavese allo Strega del 1950, emozionato davanti alla lavagna dov’erano registrati tutti i nomi della cinquina. Oltre al suo, di nome, ricordo solo quello di Concetto Marchesi, un altro nume della mia formazione. E il libro con cui vinse era La bella estate, opera da me amatissima, fin dai tempi del ginnasio. Con un ricordo del genere, come non sentirmi onorato di far parte di un’altra cinquina, di esser stato scelto per un premio così autorevole? Ma quel che verrà sta tutto sulle ginocchia degli dèi.

I versi di Pontiggia

Com’è che la vorresti questa vita,
tua, ora, in questa sera
che si prolunga, ed è già tardi, quando
il buio sprofonda in un altro
buio

adesso, non domani,
mentre mi stai leggendo
un seme, anima, la materia della notte
che lavora dentro di noi, come un’opera silenziosa,
e una gioia lontana, che si fa strada,
arranca

è un millennio nuovo
che si alza sulle rovine di un altro
e nomi che furono grandi,
e sono già ombre

Maria Oppo

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