L’arte come politica. Parola all’artista brasiliana Juliana Notari

Femminista, ecologista e anticolonialista, l’artista brasiliana Juliana Notari vuole cambiare il modo in cui parliamo di arte e di politica grazie al trauma. Perché “l’arte deve dare fastidio”.

Juliana Notari è la mente dietro la scultura di una vulva ferita che ha fatto il giro del mondo, innervosendo l’estrema destra prima di tutto a casa sua, il Brasile di Bolsonaro. Classe 1975, Notari è una studiosa e un’artista sperimentale, la cui ricerca visiva ha attraversato diversi media, incluse performance, installazioni e fotografie, impegnandosi in una ricerca profondamente relazionale e biografica, a tratti catartica. Il suo approccio multidisciplinare le permette di mettere in discussione fantasie e paure, traumi e desideri, creando relazioni tra le persone e tra le idee.

INTERVISTA A JULIANA NOTARI

La sua Diva, la scultura di una vulva rossa nel parco Usina de Arte, ha ottenuto un successo straordinario, diventando focus di una controversia politica. Se lo aspettava?
No, sono rimasta molto sorpresa. Anche se so che questo è un lavoro di grande impatto, non immaginavo che avrebbe attirato così tanta attenzione in rete, né così tanto odio. La risposta di rigetto è comunque coerente con la lacerazione che ho aperto nella terra: Diva è una ferita che fa anche male. Prima di tutto perché insiste sulla misoginia portata dal patriarcato, strutturale di Bolsonaro. La sua estrema destra ha fomentato conflitti di genere, accentuando le diseguaglianze di classe e quelle etnico-razziali.

Qual è il vero significato dell’opera?
La scultura è nata da una ricerca che porto avanti da oltre vent’anni. Tutto è iniziato quando mi sono imbattuta in speculi ginecologici nella periferia di Olinda: da un oggetto apparentemente casuale ho iniziato a problematizzare le ferite, e interiorizzarle. Così sono nati l’intervento urbano Spalt-me e la performance D-ra Diva, opere in cui studio il corpo femminile, il concetto di penetrazione e di ferita. Nel primo caso ho creato crepe organiche nei muri di tutto il mondo da attraversare con le mani, nel secondo ho bucato un muro con un martello per poi riempirlo di sangue. Il mio ultimo lavoro non è che una prosecuzione di queste indagini, su scala monumentale: Diva misura 33 metri di lunghezza per 16 di larghezza, e la sua creazione – ulteriormente complicata dalla pandemia – è durata 11 mesi.

Perché proprio su quel terreno?
Premettendo che Diva è nata nel parco di sculture di Usina de Arte su invito del Museo di Arte Moderna Magalhães come prima opera di una donna nella storia del programma, io sono intervenuta su un lembo di terra che non è un paesaggio incontaminato o un luogo idilliaco. Questo suolo, sede di un ex zuccherificio, è stato rovinato dalla monocultura di canna da zucchero e dai traumi sociali della schiavitù. Tutti mi hanno chiesto se Diva fosse una vulva: è una ferita, la più grande che io abbia mai aperto. Così io posso parlare di colonialismo, capitalismo e violenza contro il corpo femminile e della Terra. Questa dimensione traumatica, espressa sotto forma di ferita aperta, è la più importante per me.

Juliana Notari al lavoro su Diva (2021) nel parco Usina de Arte di Agua Preta

Juliana Notari al lavoro su Diva (2021) nel parco Usina de Arte di Agua Preta

L’OPERA DIVA DI JULIANA NOTARI

Per questo secondo lei ha fatto così impressione?
Sì, ma anche perché le forme femminili non sono “accettabili” in architettura, mentre quelle falliche vengono vissute come rappresentazioni totemiche di vittoria e coraggio. La vulva è stata attaccata per millenni, annullata e sottomessa dal patriarcato. La demonizzazione di questi genitali e del loro sangue è un riflesso dell’intera struttura violenta e sessista a cui sono sottoposti i corpi non maschili sia cis che trans, come anche i corpi le cui performance maschili non coincidono con un certo immaginario fallocentrico. Dovremmo chiederci perché abbiamo così tanti falli, là fuori, naturalizzati come standard, e perché se metà della popolazione ha una vulva la sua immagine suscita ancora tante polemiche. Una delle accuse che mi sono state fatte sui social è che l’opera sia transfobica e rafforzi il binarismo di genere, perché i genitali sono in primo piano, enormi. Io penso che il femminile sia invece un potere ampio e indipendente dal sesso! La monumentalità di Diva è dovuta al suo rapporto con il paesaggio e con la lotta: se visto in relazione alla dimensione di Gaya, Madre Terra, le dimensioni svaniscono.

È stato complicato realizzare l’opera?
L’intero processo di Diva è stato molto faticoso, il che è normale per un lavoro di queste proporzioni. Ma ci sono stati due momenti molto impegnativi, l’inizio dello scavo e il termine del processo di verniciatura. Il primo perché, come mi spiegava l’ingegnere, non era possibile utilizzare alcun tipo di escavatore su quel terreno. L’altro perché l’inchiostro usato è una vernice speciale con protezione solare comunemente usata sulle navi, che ha bisogno di catalizzatore. Alla fine, però, è andato tutto per il meglio. Anche perché, nei diversi mesi in cui ho vissuto presso lo stabilimento e con la comunità locale, mi sono accorta che c’era una buona accoglienza verso Diva: con il lavoro che prendeva forma, le persone hanno iniziato a porsi in modo meno scherzoso e imbarazzato e a comprenderne la complessità. Questo è il ruolo dell’arte: problematizzare, far riflettere, e contestare i modelli patriarcali e capitalistici. Deve dare fastidio.

Giulia Giaume

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Giulia Giaume

Giulia Giaume

Amante della cultura in ogni sua forma, è divoratrice di libri, spettacoli, mostre e balletti. Laureata in Lettere Moderne, con una tesi sul Furioso, e in Scienze Storiche, indirizzo di Storia Contemporanea, ha frequentato l'VIII edizione del master di giornalismo…

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