Laboratorio Illustratori. Filippo Vannoni

Su Artribune Magazine ha preso il via una nuova rubrica, che dà voce ai giovani talenti dell’illustrazione. Autori di opere realizzate ad hoc per la nostra versione cartacea.

Classe 1990, bolognese residente a Cattolica, Filippo Vannoni inaugura questa rubrica. Realizzando appositamente per Artribune Magazine tre illustrazioni. Ha esordito illustrando tavole da skate, secondo lo spirito della controcultura americana, per poi cimentarsi nel disegno su carta e successivamente nella grafica digitale, attraverso la quale si sente un alchimista. Le sue sono visioni fatte di incubi. Di atmosfere oscure, stranianti e deliranti, dove l’indagine della psiche, spesso disturbata, la fa da protagonista. Trasgressivo, disincantato e controcorrente, dà sfogo ai suoi deliri, tramite un alter ego, con un work in progress su Instagram. Una sorta di diario costellato dalle immagini dei suoi graffiti vandalici sparsi tra edifici abbandonati e muri delle stazioni ferroviarie.

Chi è Filippo Vannoni?
Un illustratore e graphic designer molto appassionato del suo lavoro, alla continua ricerca della controcultura e dell’estremismo.

Come nasce la tua passione per l’illustrazione?
Non so quando con precisione, ma ho il ricordo che fin da bambino disegnare è sempre stata l’unica cosa che sapevo fare bene. A scuola non sono mai stato uno che brillava, tranne che nel disegno e nelle materie artistiche, e per questo sono sempre stato incoraggiato da insegnanti e familiari a coltivare questa capacità. Ma penso che il momento di start sia stato appassionarmi di skate e le copertine dei dischi punk. Le grafiche delle tavole da skate erano per me qualcosa di eccezionale. Compravo la rivista 6:00 am dove, oltre interviste e foto, c’erano le grafiche delle tavole che ricopiavo fino allo sfinimento, ancora ne ricordo benissimo alcune. L’altro passaggio fondamentale è stato andare al fiume ogni giorno a guardare i murales di enko4 e della CLA crew, che fotografavo con la macchina usa e getta per poi riguardarli a casa e cimentarmi nel disegnare i miei pezzi. Non so se la passione possa essere nata tra questi due passaggi, ma sicuramente hanno alimentato il mio stimolo nel disegnare.

Cosa cattura la tua attenzione nel mondo che ti circonda?
Di casa esco poco e niente di giorno, magari un giro per respirare un po’ di aria fresca. Di notte mi piace uscire in bici e cercare storie. Adoro il disagio fuori dalle discoteche della riviera, le risse nei bar tra gli avanzi di cervelli dei cosiddetti anni d’oro. Ma il fascino maggiore per me lo creano gli edifici abbandonati, dove mi piace entrare a curiosare per trovare bei muri sui quali fare graffiti o stanze dove organizzare party.

Filippo Vannoni per Artribune Magazine © Filippo Vannoni

Filippo Vannoni per Artribune Magazine © Filippo Vannoni

Da dove provengono le visioni che riporti su carta?
Dagli incubi che la mia psiche partorisce e mi mostra su carta. Cerco di spiegarmi meglio. Io difficilmente parto a disegnare se non ho un modello. Nella maggior parte dei casi il modello base del mio disegno è una o più sovrapposizioni di macchie – possono essere inchiostro, tempera, acrilico, spray e altro – ma quello che in quel momento la mia testa interpreta di quella macchia lo disegno sopra. Ne escono sempre disegni abbastanza mostruosi e oscuri. Credo che se i miei lavori venissero letti come test di Rorschach, lo psichiatra avrebbe qualcosa da dire.

Descrivi il processo creativo che ti conduce alla realizzazione di un’illustrazione.
Per quanto riguarda il digitale, spesso il processo “creativo” è quello di trovare una foto su una delle piattaforme social online che frequento e che vengono aggiornate quotidianamente, salvarla e modificarla il più possibile. Il processo di mutazione spesso segue una strada abbastanza delineata. A volte lo stesso procedimento può essere svolto con i miei disegni manuali scansionati. Anche l’illustrazione manuale ha un suo rituale, che consiste nel far del dripping su foglio da acrilico. L’ispirazione nasce dalle macchie e la mia interpretazione ne è il risultato finale.

Qual è il tuo sogno?
Il mio vero sogno è avere successo con quello che faccio e che mi rappresenta mantenendo la mia identità, senza dover cambiare e mercificarmi per il volere di terzi.

Quali sono tuoi modelli per quanto riguarda illustrazione, cinema e musica?
La musica è fondamentale quando lavoro: non ho un genere che mi accompagna quotidianamente, ma la musica ci deve essere sempre. Adoro veramente tantissimo il genere noise, un genere super sperimentale dove spesso gli strumenti sono “do it yourself”, chip raccolti dai bidoni ai quali si dà una seconda vita, i live spesso sono vere e proprie performance. A livello sonoro però sono per stomaci forti, suoni potenti e fastidiosi spesso senza una base ritmica, difficili da ascoltare a casa. Sulla stessa scia sperimentale, la breakcore è un altro genere che ascolto durante il processo creativo, musica che ha una forte e riconoscibile base ritmica ma che viene totalmente o parzialmente destrutturata. Per quanto riguarda l’illustrazione, il mio occhio casca sul mondo del tatuaggio e dell’autoproduzione principalmente, o almeno su artisti che hanno mantenuto un segno non digeribile da tutti, tipo 108, Alfano, Dottor Pira, MOMO, Goatfuker, Céline Guichard, Cane Morto, Murdo, Eterno, David Shrigley, Piet Du Congo e altri. Il cinema non è la mia passione ma grande ispirazione mi è data dal cinema horror, del quale apprezzo assolutamente i film di bassissima lega. Per me la Troma è la miglior casa di produzione cinematografica.

Filippo Vannoni per Artribune Magazine © Filippo Vannoni

Filippo Vannoni per Artribune Magazine © Filippo Vannoni

Oltre alle matite ti affidi anche alla grafica digitale. Quale delle due ti è più congeniale e perché?
La grafica digitale è una sperimentazione continua. Il computer è il mio laboratorio portatile, una sorta di fabbrica dei mostri, mi fa sentire un alchimista digitale, cambio parametri, numeri, smostro, crasho e fotografo il disastro che ho creato, glitch su glitch, veramente una fucina di sperimentazione digitale. Ma per assurdo posso dire che, nonostante sia una sperimentazione e mi affidi un po’ a quello che si forma dal glitch o dal crash, il risultato è abbastanza calcolato. Perché, a differenza dell’opera manuale, il programma è più macchinoso da piegare al mio volere e mi ci approccio con idee chiare su cosa dovrà uscire, poi ovviamente nel processo creativo è sempre comunque un divenire, però ecco, sono variazioni che non stravolgono totalmente l’idea dalla quale si parte e alla quale si vuole arrivare. Oggi, per non perdere la manualità nel disegno, ma per non perdere nemmeno le nozioni imparate per i programmi digitali, mi piace fare un bel mix tra digitale e analogico. Aggiungo frammenti digitali a disegni analogici o glitcho il disegno manuale e poi lo faccio diventare talmente astratto che diventa una texture su un’immagine per un flyer, ad esempio. Entrambe le tecniche hanno un’importanza fondamentale nel mio processo creativo, una non esclude l’altra, anzi ora stanno imparando a convivere in un’unica opera.

A quale progetto lavori attualmente e quali sono quelli futuri?
Attualmente sto lavorando a Goro. È il lavoro infinito del mio alter ego Oleg Kuru, per Instagram. Nasce come sfogo, non è mai stato pensato come progetto fino a quest’estate, quando ha iniziato a prendere forma come diario fotografico e poi video-documentario. Goro nasce nel 2017, quando andavo spesso a Bologna e una sera che me la giravo con un paio di bombolette addosso, contento della serata potente che solo quella città può regalare, mi infilai dietro ai muri dei magazzini della stazione e mi misi a pittare. Da quel momento le bombolette non mi abbandonarono mai. Goro si sviluppa in edifici abbandonati o in costruzione, sotto i ponti e sui binari delle stazioni. Non tratta politica né temi “importanti”, è vandalismo e basta, non deve valorizzare i muri che segna, è nato in maniera violenta e illegale e così rimarrà: quella è la sua natura e così continuerà a essere agli occhi degli altri. Goro diventerà anche un evento, probabilmente di dubbia legalità, ma a breve si farà sentire anche fuori dal circuito dei graffiti con tutto il suo stile ignorante. Per quanto riguarda il futuro, allacciandomi alla produzione e alla rete di contatti nata da Goro, c’è in mente un vero e proprio brand che va dal magazine al vestiario. Ma il futuro al momento è lontano.

Roberta Vanali

https://filippovannoni.portfoliobox.net/

Versione integrale dell’articolo pubblicato su Artribune Magazine #46

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Roberta Vanali

Roberta Vanali

Roberta Vanali è critica e curatrice d’arte contemporanea. Ha studiato Lettere Moderne con indirizzo Artistico all’Università di Cagliari. Per undici anni è stata Redattrice Capo per la rivista Exibart e dalla sua fondazione collabora con Artribune, per la quale cura…

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