Pei’s World A brief history of a Chinese gallery in Italy
Durante tutto il periodo della Biennale 2019, da sabato 11 maggio e fino al 24 novembre, presso lo spazio Thetis all’Arsenale di Venezia sarà visitabile la mostra Pei’s World. A brief history of a Chinese gallery in Italy, a cura di Luca Beatrice.
Comunicato stampa
Durante tutto il periodo della Biennale 2019, da sabato 11 maggio e fino al 24 novembre, presso lo spazio Thetis all’Arsenale di Venezia sarà visitabile la mostra Pei’s World. A brief history of a Chinese gallery in Italy, a cura di Luca Beatrice.
Un’esposizione collettiva con opere di sei artisti internazionali che mette in luce l’ampio e coraggioso progetto culturale e imprenditoriale di una giovane donna. “Per una volta dunque – scrive Luca Beatrice, curatore dell’esposizione - una mostra non è soltanto incentrata sugli artisti, ma anche su chi si è inventato letteralmente da zero un progetto”.
Saranno in esposizione dipinti e installazioni site-specific di Afran, Jorge Cavelier, Huiming Hu, Tannaz Lahiji, Cong Ma, Giorgio Piccaia.
Afran (Francis Nathan Abiamba) è nato a Bidjap (Camerun) nel 1987, vive e lavora in Italia dal 2009. Formatosi in Africa, ha studiato all’Accademia di Bergamo; lavora con differenti linguaggi dalla pittura alla scultura all’arte pubblica. Conta numerose mostre internazionali fra Africa, Europa e America. Ha ricevuto vari premi internazionali d'arte tra cui il primo San Fedele di Milano e il premio Liliana Nocera della Permanente di Milano.
Negli ultimi decenni la geografia dell’arte è profondamente cambiata. Se da una parte il concetto di “local” ha perduto il fascino che lo caratterizzava negli anni Ottanta, ora le città occidentali sono diventate il punto di raccolta di esperienze provenienti da più parti del mondo. New York, Londra, Berlino, Parigi, Milano risultano quindi identità poliformi che si vanno compiendo attraverso la somma di molteplici linguaggi. Ciò che non riesce alla società, tanto meno alla politica, trova terreno fertile nell’arte e nella cultura, là dove scambi, interazioni e integrazioni, sono all’ordine del giorno.
Così Afran, l’artista camerunense che si è formato in Italia, con esperienze accademiche e nella pittura Street. Ricercando un elemento che faccia da ponte tra due culture tanto diverse, ha trovato la risposta nel jeans, poiché la stoffa denim è tra i simboli più eloquenti per raccontare le contraddizioni e la complessità della nostra epoca.
“Una specie di piattaforma in cui ognuno può plasmare la propria identità. Una specie di grado zero”. È>mc2 è il titolo dell’installazione di Afran, due quadri a forma circolare. Il primo quadro raffigura in modo più o meno realistico il volto di Albert Einstein. Il secondo, invece, riporta un’immagine astratta. Il titolo, ovviamente, cita l’equazione di Einstein: E=mc², Energia uguale massa per velocità al quadrato. “L'energia -dice Afran- è senza alcun dubbio uno dei temi più urgenti nel nuovo secolo. Dalla gestione delle energie fossili alla ricerca di alternative più sostenibili, l'unica certezza è l'urgenza di considerare il risparmio energetico. L'energia richiesta al nostro pianeta è di gran lunga superiore a quanto esso ci possa offrire. Ma l'aspetto ambientale è soltanto una delle chiavi di lettura dell’opera. Dopo la teorizzazione del postmoderno e della modernità liquida, la post verità è oggi una realtà innegabile. Che sia scientifica o storica, non esiste più nessuna verità che sia al riparo dal sospetto. Neanche i fatti di cronaca con l'avvento delle fake news riescono a sottrarsi. Dall'efficienza dei vaccini alla forma della terra, le teorie complottiste mettono in discussione qualsiasi certezza o traguardo. Allo stesso tempo, chiunque dal pulpito del diritto di espressione, può avanzare le sue teorie, autorevoli né più né meno come un'opinione e diffonderle gratuitamente attraverso i social come verità inconfutabili: tutto e/è il contrario di tutto. Il jeans diviene, allora, l'espressione figurata più eloquente di questo concetto: casual è l'abbigliamento, casual la prassi. Grazie a una "democratizzazione della verità", chiunque può dubitare o rimettere in discussione qualsiasi teorema matematico... Perché non È>mc2?”.
Jorge Cavelier è nato in Colombia nel 1953, vive in Florida. Attento alle immagini della natura, è pittore, lento e sofisticato, introduce nei suoi delicati acquerelli la dimensione dello scorrere del tempo.
Che a proposito della pittura si discuta in termini residuali oggi non è certo una novità. Il pittore contemporaneo preferisce chiamarsi artista a tutto tondo, la pittura non è più un dogma e necessariamente è chiamata a dialogare con lo spazio espandendosi oltre i limiti del bidimensionale. Tale condizione entra anche nella poetica di Jorge Cavelier, che pure conosciamo pittore colto e raffinato. Il suo nuovo lavoro, El Dorado. La leggenda, si presenta come un’installazione dipinta su otto teli di seta, sorretta in modo pressoché invisibile, liberamente fluttuante e leggera. Pittura percorribile, attraversabile, cui si aggiunge un elemento scultoreo specchiante. Cavelier vuole cioè ricostruire un ambiente che rimanda alla “foresta di nebbia in Colombia dove si raduna la più alta biodiversità al mondo”. Come di consueto si inserisce nel dialogo con l’osservatore l’elemento simbolico. “Questo bosco di altitudini -racconta l’artista- contiene in sé stesso la rappresentazione della madre natura, la rigeneratrice della vita, da cui dipendono la vita, le acque pulite, l’aria rinnovata, l’armonia e l’equilibrio dell’ecosistema. L’ulteriore messaggio contenuto è l’urgenza di svegliare la coscienza intorno alla conservazione dei boschi. La cronaca spagnola antica racconta il rituale di pagamento alla natura madre da parte degli indigeni una volta all’anno. Durante una notte di plenilunio un cacicco galleggiava su una chiatta fino al centro della laguna sacra. Lì, portando tutti i pezzi d’oro prodotti dalla comunità, si tuffava nelle acque rilasciando i regali sull’acqua. L’oro era per quelle comunità “gocce di sole”, simbolo della presenza maschile sulla terra. La laguna invece l’utero dell’umanità, poiché si credeva che la prima donna sulla terra fosse originata da quelle acque. L’unione di acqua e oro assicurava la continua fertilità della natura”.
Huiming Hu è nata in Cina nel 1990 e come buona parte degli artisti della sua generazione lavora su specifici progetti, come nel caso di Wall, l’installazione per questa mostra. Nella MIA Photo Fair 2018 è stata selezionata tra le migliori 15 fotografe nella A Curator’s Guide di BNL. Sono passati esattamente trent’anni dalla caduta del muro di Berlino. Era il 1989 e di quell’anno si ricorda un altro evento storico fondamentale per la nostra epoca: l’invenzione del www.Venendo all’arte, invece, al Centre Pompidou si inaugurò la mostra Les magiciens de la terre, la prima grande esposizione internazionale che univa agli artisti occidentali altri provenienti da mondi a quei tempi considerati lontani, se non esotici. La globalizzazione stava dunque arrivando a celeri passi.
Tornando però all’immagine del Muro, per noi occidentali non c’è suggestione (e oggi celebrazione) che non rimandi a quella straordinaria voglia di infrangere le barriere per un nuovo desiderio di libertà. Al contrario, ogni muro che viene eretto ripropone il senso del limite, come se davvero la storia non ci avesse insegnato nulla.
The Wall, il muro, è anche il tema portante dell’installazione di Hu Huiming, ma l’ispirazione si nutre ancora una volta nel rapporto con la cultura di provenienza. Dentro ciascuna mattonella di cemento che forma questo sbarramento è nascosto un libro pressato, a cui non si potrà più accedere né dunque leggerlo. L’episodio si riferisce a un preciso accadimento storico: quando l’imperatore Qin Shihuang bruciò i libri, la nona generazione di Confucio, discendente da Kongzhen, nascose molti testi classici della tradizione all’interno di un muro. Così i libri furono salvati, salvati ma illeggibili. Più tardi, al tempo dell’imperatore Hanjing, Liu YuYu, principe del Lu Gong, espanse il suo palazzo e demolì la casa originale di Confucio. Del muro dunque non resta niente, e questo è un tentativo estremo di riportarlo in vita.
Tannaz Lahiji nasce a Teheran nel 1978 da una famiglia di artisti, attivissima in ogni campo della creatività, ha da poco completato a Firenze il suo nuovo progetto “Riflessioni su Dante” al Palazzo Vecchio, al Museo della Casa di Dante e al Palazzo Bastogi.
Eclettismo, pluralità di linguaggi, costruzioni di grande impatto scenografico che contengono parimenti l’impianto dell’arte concettuale e il forte approccio emozionale. Tra Teheran e Firenze, l’Iran e l’Italia, Tannaz lavora come un’artista globale, inventa un mondo sempre sorprendente che fa dialogare, talora scontrandoli, l’occidente con l’oriente, la tradizione antica autoctona con l’aspirazione al contemporaneo. Le sue grandi installazioni ambientali sono pagine aperte, mancano le risposte ma ci sono sempre nuove domande. In fondo l’arte è rivelatrice di un mistero e il mistero lascia spazio a numerose interpretazioni.
L’intervento di Tannaz Lahiji a Venezia è figlio della sua recente mostra “diffusa” in diversi palazzi storici fiorentini, pensata come un omaggio a Dante, anticipando di un paio d’anni le celebrazioni per i 700 anni dalla sua morte fissate nel 2021. Inferno e Paradiso, peraltro, sono metafore che appartengono non solo alla cultura cattolica ma anche a quella persiana antica. La metafora è peraltro il modo di procedere più tipico di Tannaz, con abbondanti riferimenti letterari e storici, per un lavoro molto colto, dai cromatismi accesi, di forte impianto teatrale e scenografico dove l’elemento del tempo assume un significato particolare e la visione si trasforma in partecipazione attiva.
Per l’intervento a Venezia, l’artista torna sul tema, a lei altrettanto caro, della cascata, già installato in precedenti mostre. “Sarà un’installazione site-specific, alta oltre cinque metri, che consiste in una cascata congelata, realizzata con diversi materiali, che ricorda lo stile delle antiche moschee persiane”.
Cong Ma nato a Nanchino, classe 1970 si dedica invece al design, alla grafica 3D, alle scenografie virtuali per una proposta estremamente attuale, tra ironia e critica sociale. Vincitore del premio Red Dot: Best of the Best in Germania.
Molto conosciuto in Cina e in Europa nel campo del design, linguaggio attraverso il quale critica in maniera ironica, a tratti aspra, modi e mode della società contemporanea globale, Ma Cong si pone spesso la questione del contesto, elemento determinante nell’attribuire il valore e il senso di un’opera. Sappiamo bene, infatti, che nell’arte contemporanea la “teoria del contesto” è attualmente predominante più ancora del cosiddetto, opinabile, concetto di qualità. Ciò che è dentro al museo, alla galleria, si definisce arte a prescindere, e se lo stesso oggetto è ospitato in un contesto internazionale il giudizio sarà ancora diverso. Così uno sfondo culturale, un ambiente naturale o stilistico, qualsiasi altro fattore che determini un evento, mira a definire il “grande contesto dell’arte”.
Il titolo scelto da Ralph Rugoff per la nuova edizione della Biennale di Venezia, ovvero “Che tu possa vivere in tempi interessanti”, costituisce il punto di partenza teorico e ispiratore del nuovo lavoro di Ma Cong. Questa frase potrebbe essere una maledizione proveniente dall’antica Cina e invece è un’invenzione dell’occidente. “Ciò- si domanda l’artista- ci porta a riflettere su come dovremmo trattare i malintesi, ad esempio un’interpretazione errata e la diffusione di una falsa informazione. Dovremmo affrontare le conseguenze del risultato?”.
Neppure l’arte può evitare passaggi apparentemente banali come il linguaggio delle emoticon che oggi ci servono per comunicare -sui messaggi WhatsApp ed in generale sui social- con stati d’animo più che con le parole, poiché sintetizzano un’emozione con una cosiddetta iconcina, rendendosi comunque empatici e simpatici. Un linguaggio globale, pur se riportato al grado zero, che supera qualsiasi tipo di barriera linguistica e di vocabolario. Le immagini, insomma, possono più delle parole.
Giorgio Piccaia è nato a Ginevra nel 1955 ma con base in provincia di Novara. Già assistente di Corrado Levi, eclettico, versatile, negli ultimi anni si è concentrato sulla ricerca pittorica. Nel 2019 è stato invitato dall’Ambasciata Italiana in Egitto per un Murales all’interno della sede. Per inquadrare l’artista Giorgio Piccaia è indispensabile ripercorrere alcune delle numerose tappe del processo di formazione che lo hanno condotto a diventare un personaggio davvero interessante nel panorama italiano. Nato a Ginevra, studente in architettura e in particolare di Corrado Levi a Milano, negli anni Ottanta è performer, editore e attivista nel gruppo teatrale di Jerzy Grotowski. Ci sono diversi modi di giungere alla pittura, Piccaia ha certamente scelto quello meno tradizionale e più eclettico, costruito su solide basi culturali e profonde interrogazioni. Nonostante la sua vena ipercontemporanea, nel linguaggio di Piccaia ritornano spesso parole che si rifanno alla tradizione classica: il logos, atto primario della conoscenza, sapienza, bellezza, forza, termini che sono celati, nascosti sotto la trama della sua pittura come fonti di ispirazione non dichiarate eppure sempre presenti.
Pur muovendosi tra installazioni e interventi tridimensionali, Giorgio Piccaia sente il bisogno, l’esigenza, la necessità periodica di tornare alla pittura dentro la dimensione del quadro. Un quadro costruito da trama, disegno, impronta, impreziosito da interventi polimaterici in grovigli che dimostrano come l’ispirazione desunta dall’informale astratto non abbia assolutamente finito la propria corsa. Rifiutando immagini troppo frontali, in un tempo dove l’abuso dell’icona è sotto gli occhi di tutti, Piccaia reinventa la pittura come uno spazio per pensare. Là dove il pensiero corrisponde alla libertà.
La scelta di artisti prevenienti da tutto il mondo deriva dal desiderio di entrare in contatto con culture diverse. “Non esiste una verità unica - afferma Peishuo - dipende molto dal punto di vista e dalle interpretazioni. Chi viene da una cultura diversa vede le stesse cose diverse da te, lo trovo bello così. In fin dei conti è come arrampicarsi sulla torre di Babele, l’arte è un linguaggio universale che unisce le differenze.”