Mottenwelt I

Informazioni Evento

Luogo
GALLERIA MARCOLINI
Via Francesco Marcolini 25/a, Forlì, Italia
(Clicca qui per la mappa)
Date
Dal al
Vernissage
10/03/2018

ore 18

Generi
arte contemporanea, collettiva

La mostra è una prima verifica compiuta dalla Galleria Marcolini sull’estetica dell’accantonare. Archivi involontari, interni logori e oggetti desueti costituiscono la consunta ontologia del Mottenwelt, il “mondo di tarme” citato da Goethe nel Faust.

Comunicato stampa

La mostra è una prima verifica compiuta dalla Galleria Marcolini sull’estetica dell’accantonare. Archivi involontari, interni logori e oggetti desueti costituiscono la consunta ontologia del Mottenwelt, il “mondo di tarme” citato da Goethe nel Faust:

Silvia Giambrone [Agrigento 1981] decostruisce alcuni marchi identitari (il merletto, il letto/ talamo, il servizio da tavola, l’ago e il filo, ecc.) costruendo un anti-lessico famigliare in cui ogni ovvietà è svelata, ogni normalità abnorme, ogni codice de-naturalizzato, svelato nella sua minacciosa artificialità. La forza decostruttiva di questo lavoro si esercita su un oggetto, l’interno domestico, che ha una lunga storia nell’arte e nella letteratura. E se vi è un genere o categoria o costante iconica o testuale su cui questo lavoro sembra indirizzarsi, se si vuole usare lo schema classificatorio proposto da Francesco Orlando nel suo studio su Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, sembrerebbe essere quello del venerando-regressivo. Gli oggetti del canone famigliare che Silvia Giambrone resuscita sono tutti venerandi-regressivi ma nondimeno attuali e ancora attivi, ancora capaci di emanare forza, di costituire identità, di scrivere la soglia tra norma e anormale. E ciò che viene svelato, che perennemente si ripete, è l’arcaica ingiunzione di Telemaco alla madre: “Su, torna alle tue stanze e pensa all’opere tue,/ telaio e fuso…” (Odissea I, 357). È da questo ordine che comincia, senza mai esaurirsi, la costruzione di ruoli sociali e identità normali.

Serre e fiori sono cifre elettive del Mottenwelt, qui rappresentate dall’unica opera presente in mostra di Mustafa Sabbagh [Amman 1961]. “Serre, fiori tolti al loro estro, riuniti in un campo di concentramento, per classi, sofisticati con iniezioni e inserti e quindi recisi ed inurbati” (Giacomo Natta in E.F. Accrocca, Ritratti su misura, Venezia, Sodalizio del libro, 1960, p. 299). I fiori morti di Sabbagh sono quanto avanza da un ricordo reale, da un’umanità che ha archiviato sé stessa e vive infelice e finalmente apolide in una dimensione post-umana.

Frammenti del pictorial archive di Luca Caccioni [Bologna 1962] compongono un altro memoriale identitario in cui oggetti sfocati sono regressivi senza essere venerandi. Alle due fotografie, documenti quasi forensi di un immaginifico archivio, si aggiungono una grande Onicophagia e una Lotophagia, chiavi di un’anamnesi interiore attraverso cui l’artista fa emergere una costellazione di forme e strutture quasi archetipiche, alcune più compiute e organizzate, somiglianti a elementi dell’architettura templare delle origini, come fregi, volte, triglifi, trafori e archi, altre in cui la forma è decostruita al punto da svelarsi nelle increspature naturali della carta e della garza antiche.

Il Salottino e i Gattini impolverati di Barbara De Vivi [Venezia 1992; Premio Combat 2017; Premio Euromobil 2018; Residenza Fondazione Bevilacqua La Masa] sono la rappresentazione iconica, venerando-regressiva, di un interno in cui accumuli di oggetti non più in uso e arredi desueti costituiscono il laboratorio famigliare in cui identità normalizzate si costruiscono e si perfezionano in un tempo che si allunga in eterno.

Le opere di CJ Taylor [Whyalla Prize 2017] illustrano i tentativi dell’artista di costruire una modalità di archiviazione di oggetti inclassificabili, il cui destino è quello di ‘stand out’, di essere integrati in un organon e allo stesso tempo ad esso inassimilabili. La logica compositiva di molte immagini è quella della natura morta, gli animaletti fluo irrompono in contesti altrimenti austeri dove l’artista ha realizzato un piccolo sistema di archiviazione riuscito, la cui logica seriale suggerisce la felicità e utilità epistemica di questa pratica: classificare e disporre in ordini compositi rimane un gesto normativo fondamentale. Le stramberie inclassificabili di CJ Taylor sono pertanto anomalie normative che lui usa per descrivere per immagini il paradosso dell’inclassificabilità e dell’inesistenza.
Anche qui, in questa mostra come in altre passate, l’idea a monte del progetto nasce dalla rilettura di un libro, quello di Francesco Orlando, un classico della critica letteraria pubblicato nel 1993. Il titolo del libro cita le immagini della letteratura, e di immagini, di cose rappresentate attraverso le parole, questo libro parla diffusamente. La mostra intende essere quasi un complemento al libro, un micro-apparato di immagini capaci di rappresentare le cifre nascoste dei nostri archivi identitari.