Mottenwelt I
La mostra è una prima verifica compiuta dalla Galleria Marcolini sull’estetica dell’accantonare. Archivi involontari, interni logori e oggetti desueti costituiscono la consunta ontologia del Mottenwelt, il “mondo di tarme” citato da Goethe nel Faust.
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Informazioni
- Luogo: GALLERIA MARCOLINI
- Indirizzo: Via Francesco Marcolini 25/a - Forlì - Emilia-Romagna
- Quando: dal 10/03/2018 - al 28/04/2018
- Vernissage: 10/03/2018 ore 18
- Generi: arte contemporanea, collettiva
Comunicato stampa
La mostra è una prima verifica compiuta dalla Galleria Marcolini sull’estetica dell’accantonare. Archivi involontari, interni logori e oggetti desueti costituiscono la consunta ontologia del Mottenwelt, il “mondo di tarme” citato da Goethe nel Faust:
Silvia Giambrone [Agrigento 1981] decostruisce alcuni marchi identitari (il merletto, il letto/ talamo, il servizio da tavola, l’ago e il filo, ecc.) costruendo un anti-lessico famigliare in cui ogni ovvietà è svelata, ogni normalità abnorme, ogni codice de-naturalizzato, svelato nella sua minacciosa artificialità
Serre e fiori sono cifre elettive del Mottenwelt, qui rappresentate dall’unica opera presente in mostra di Mustafa Sabbagh [Amman 1961]. “Serre, fiori tolti al loro estro, riuniti in un campo di concentramento, per classi, sofisticati con iniezioni e inserti e quindi recisi ed inurbati” (Giacomo Natta in E.F. Accrocca, Ritratti su misura, Venezia, Sodalizio del libro, 1960, p. 299). I fiori morti di Sabbagh sono quanto avanza da un ricordo reale, da un’umanità che ha archiviato sé stessa e vive infelice e finalmente apolide in una dimensione post-umana.
Frammenti del pictorial archive di Luca Caccioni [Bologna 1962] compongono un altro memoriale identitario in cui oggetti sfocati sono regressivi senza essere venerandi. Alle due fotografie, documenti quasi forensi di un immaginifico archivio, si aggiungono una grande Onicophagia e una Lotophagia, chiavi di un’anamnesi interiore attraverso cui l’artista fa emergere una costellazione di forme e strutture quasi archetipiche, alcune più compiute e organizzate, somiglianti a elementi dell’architettura templare delle origini, come fregi, volte, triglifi, trafori e archi, altre in cui la forma è decostruita al punto da svelarsi nelle increspature naturali della carta e della garza antiche.
Il Salottino e i Gattini impolverati di Barbara De Vivi [Venezia 1992; Premio Combat 2017; Premio Euromobil 2018; Residenza Fondazione Bevilacqua La Masa] sono la rappresentazione iconica, venerando-regressiva, di un interno in cui accumuli di oggetti non più in uso e arredi desueti costituiscono il laboratorio famigliare in cui identità normalizzate si costruiscono e si perfezionano in un tempo che si allunga in eterno.
Le opere di CJ Taylor [Whyalla Prize 2017] illustrano i tentativi dell’artista di costruire una modalità di archiviazione di oggetti inclassificabili, il cui destino è quello di ‘stand out’, di essere integrati in un organon e allo stesso tempo ad esso inassimilabili. La logica compositiva di molte immagini è quella della natura morta, gli animaletti fluo irrompono in contesti altrimenti austeri dove l’artista ha realizzato un piccolo sistema di archiviazione riuscito, la cui logica seriale suggerisce la felicità e utilità epistemica di questa pratica: classificare e disporre in ordini compositi rimane un gesto normativo fondamentale. Le stramberie inclassificabili di CJ Taylor sono pertanto anomalie normative che lui usa per descrivere per immagini il paradosso dell’inclassificabilità e dell’inesistenza.
Anche qui, in questa mostra come in altre passate, l’idea a monte del progetto nasce dalla rilettura di un libro, quello di Francesco Orlando, un classico della critica letteraria pubblicato nel 1993. Il titolo del libro cita le immagini della letteratura, e di immagini, di cose rappresentate attraverso le parole, questo libro parla diffusamente. La mostra intende essere quasi un complemento al libro, un micro-apparato di immagini capaci di rappresentare le cifre nascoste dei nostri archivi identitari.

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