Massimiliano Gatti – La mémoire est un jeu d’enfant
 
                            Mostra personale di Massimiliano Gatti.
Comunicato stampa
La mémoire est un jeu d’enfant è un viaggio nella memoria, un progetto espositivo che riunisce
alcune tra le più recenti ricerche fotografiche di Massimiliano Gatti, tutte accomunate da una
riflessione profonda sul carattere vivo, dinamico, ambivalente del ricordare. La mostra
presenta sette progetti che si muovono lungo il confine tra conservazione e immaginazione,
documento e finzione. La memoria, in questa prospettiva, non è mai un archivio statico, ma
una pratica fluida, a volte fragile: può essere gioco, rovina, traccia, illusione. Un processo
sempre in bilico tra ricordo e ricostruzione. Attraverso archivi personali, materiali storici,
manipolazioni digitali e gesti condivisi, i lavori esposti danno forma a una costellazione di
memorie plurali, dove ogni immagine diventa un luogo di interrogazione e di resistenza, di
continuità e di trasformazione.
Il punto di partenza di questo viaggio allora non può che essere il gesto più intimo e familiare
che intreccia lo sguardo di un padre e l’immaginazione di sua figlia, Adele. È qui, nel gioco
delicato tra generazioni, che la memoria mostra la sua natura mutevole, affettiva, creativa.
Ne La mémoire est un jeu d’enfant, il ricordare diventa un atto a quattro mani, dove il passato
non è solo da custodire, ma da trasformare insieme. Le fotografie dei monumenti storici
diventano lo sfondo su cui Adele interviene con il colore, seguendo l’istinto libero e non
condizionato: un’azione spontanea che nasce dall’incontro tra il suo mondo interiore e quello
visibile, e racconta di un’infanzia che reinventa il passato. In questo gioco condiviso
l’iconografia di un’epoca si trasforma in atto creativo, un ponte tra storia e infanzia, tra memoria
e futuro; e le due pratiche, del padre e della figlia, si fondono in un’opera comune, dove il gioco
diventa gesto artistico e la memoria si fa materia viva, colore.
Con Rovine entriamo in un tempo immobile, archetipico. Il ricordo qui si manifesta attraverso
ciò che crolla ma resiste, ciò che resta pur svanendo. Le rovine parlano un linguaggio che la
nostra epoca fa, forse, fatica a comprendere: sono presenze silenziose e solenni, capaci di
evocare un tempo sospeso, indeterminato, che sfugge alle categorie del presente.
Attraverso la loro bellezza fragile, esse rivelano tanto l’opera dell’uomo quanto la sua assenza.
Tracce di civiltà passate, nate e crollate sotto il peso di eventi naturali o squilibri di potere, ci
pongono di fronte all’instabilità della memoria e dell’identità. Esse contengono in sé una doppia
tensione: quella tra armonia e disgregazione, tra permanenza e dissoluzione.
In un mondo frammentato e precario, dove le coordinate storiche e culturali sembrano incerte,
la contemplazione delle rovine ci interroga sul nostro stesso destino.
Dove Rovine ci chiede di ascoltare in silenzio ciò che il tempo lascia, Aleppo è una foglia
d’alloro introduce la materia pulsante, che assorbe memoria, la incarna e la trasmette. Non vi
è più solo contemplazione, ma un gesto quotidiano e antico, carico di senso, che scorre tra le
mani e si ridefinisce come un rituale che attraversa il tempo. Aleppo è una ferita aperta,
consumata da anni di conflitto. Il suo sapone diventa un oggetto-soglia, in equilibrio tra rito e
rovina, solidità e frattura. Come una città che si sgretola, e che forse – proprio attraverso le
sue crepe – prepara la possibilità di un nuovo inizio.
Un altro elemento intriso di memoria è il francobollo: piccolo, fragile, mobile, eppure capace di
trattenere un’intera iconografia nazionale. Con La Collezione, la memoria vive nell’immagine
moltiplicata, nella sua circolazione e nel suo consumo lento. I francobolli siriani, raccolti e
classificati, compongono un atlante visivo e sentimentale che tenta di dare un volto a ciò che
rischia di svanire: un’identità collettiva, una storia, un luogo che si allontana nel tempo e nello
spazio. Qui il ricordo si fa segno e tassonomia, una memoria che ha viaggiato attraverso
confini, mani e storie, e che ancora prova a dirci qualcosa.
Omega ci introduce in un territorio più instabile, dove la realtà vacilla e la finzione prende
forma. Il progetto nasce dal mistero irrisolto che circonda la scomparsa di Federico García
Lorca, diventando simbolo di una realtà che non si può più toccare e che proprio per questo si
presta a essere ridefinita, per aprirsi quindi a una riflessione sulla memoria collettiva e
sull’assenza di una verità storica univoca. Le immagini, realizzate nel paesaggio sospeso del
Barranco del Viznar, accostano fotografia e manipolazione digitale con interventi di Intelligenza
Artificiale, generando un racconto visivo ambiguo e stratificato. Omega apre così una nuova
fase del percorso: la memoria come enigma, come spazio ibrido tra ciò che è stato e ciò che
potrebbe essere. Il titolo rimanda a “Omega. Poema para los muertos”, in cui Lorca evoca la
morte con immagini visionarie. Allo stesso modo, quest’opera è una meditazione sulla fine e
sulla sopravvivenza: la natura che cresce nel luogo del trauma diventa simbolo di resistenza.
Dopo aver attraversato il luogo incerto della memoria manipolata, in Bianco vi è un ritorno al
paesaggio e ai suoi mutamenti di forma. Qui, il Monte Bianco è osservato attraverso due tempi
lontani fra loro: quello di lastre fotografiche, risalenti a circa un secolo fa, e quello di immagini
contemporanee. A unire questi sguardi è il bianco – o meglio, la sua assenza: la neve, simbolo
di purezza e mistero, oggi sempre più rara. Le lastre originali, stampate in negativo su carta
baritata con l’acqua della neve raccolta in loco, restituiscono un paesaggio ribaltato, quasi
astratto. Il bianco si fa nero profondo e la montagna diventa un enigma visivo, svincolato dal
tempo e dallo spazio. Le fotografie attuali, invece, mostrano le tracce della trasformazione:
erosioni, assenze, segni visibili della crisi ambientale. In questo gioco di inversioni e
specchiature, Bianco rende evidente la fragilità degli ecosistemi montani, la memoria che si
scioglie, il tempo che erode. Bianco è anche un invito alla cura: a osservare, a ricordare, a non
dimenticare ciò che lentamente scompare sotto i nostri occhi.
Arrivati al termine di questo percorso, incontriamo Al-riḥla (Il viaggio): un progetto realizzato
con il videomaker Nico Cremonesi (editing e sound design di Massimo Leonardi) e i ragazzi
della Comunità San Francesco di Chiaravalle, in cui la geografia diventa il luogo dove la
memoria si intreccia al corpo e alla scelta. Su una cartina, apparentemente neutra e oggettiva,
giovani migranti tracciano il proprio percorso con fili rossi e chiodi, costruendo una geografia
alternativa fatta di ricordi, decisioni, tagli e legami. Ogni filo racconta una traiettoria unica: si
tende, si annoda, si spezza. È strada, ma anche ferita. Il rosso è il colore spesso associato
alla migrazione, ma è anche il colore del sangue, dell’amore, del coraggio di resistere. I chiodi
sono insieme àncore e cicatrici, testimonianza del peso di ogni passaggio. Al-riḥla è un’opera
sulla soggettività di chi è spesso ridotto a categoria, un invito a guardare oltre i confini disegnati
sulle mappe, a dare ascolto alle voci che si muovono sotto la superficie visibile del mondo. Un
esercizio di memoria attiva, dove il gesto del tracciare diventa un modo per riappropriarsi della
propria storia, come un campo da gioco aperto, un universo di possibilità.
Massimiliano Gatti si laurea in Farmacia e si diploma in Fotografia al Cfp R. Bauer di Milano,
da diverso tempo porta avanti la sua ricerca artistica sul territorio medio orientale. Fotografo
al seguito di missioni archeologiche in Medio Oriente (dal 2008 al 2011 a Qatna, Siria e dal
2012 nel progetto PARTeN nel Kurdistan iracheno) ha modo di vivere e approfondire la
conoscenza di quelle terre ricche di Storia e di storie. Con un approccio documentaristico, ma
lontano dal reportage, la sua ricerca spazia dall'esplorazione del passato, dei resti e delle
rovine degli antichi, fino all'osservazione della poliedrica realtà contemporanea, suggerendo
la propria riflessione personale. Ha partecipato a numerose mostre personali e collettive in
Italia e all'estero. Dal 2013 fa parte come fotografo di scavo del Progetto Archeologico
Regionale Terra di Ninive (PARTEN), una ricerca interdisciplinare condotta dall’Università di
Udine nel Kurdistan iracheno. Vive e lavora tra l’Italia e il Medio Oriente.
Gaia Renis (Salerno, 1999) sviluppa la propria ricerca visiva attraverso la fotografia e la
scrittura, alternando pratiche analogiche e digitali con un approccio concettuale. Dopo gli studi
in Scienze Umanistiche per la Comunicazione e la specialistica in Editoria e Comunicazione
presso l’Università Statale di Milano, con una tesi teorica sullo statuto della fotografia; ha
completato la propria formazione al CFP Bauer. Nel 2022 ha vinto il Premio Driving Energy –
Fotografia Contemporanea promosso da TernaCult. Dal 2021 al 2025 ha collaborato
stabilmente con Podbielski Contemporary. Nel 2023 è stata membro della giuria del Premio
Terna (sezione Accademia).
 
                 
                             
                            