Mani femminili
Nella mostra i documenti scelti vanno ad attestare come la mano d’opera femminile venisse utilizzata, e in alcuni contesti territoriali anche valorizzata, per la provata abilità di lavorare panni d’oro e d’argento, di lino e di lana, di filare la seta grezza in modo netto ed uguale, nel rispetto delle puntuali prescrizioni indicate nei capitolari delle arti.
Comunicato stampa
Giovedì 7 marzo, alle ore 12.00, nell’ambito dell’iniziativa “Do.Ve. Donne a Venezia. Creatività, Economia, Felicità”, sarà inaugurata, nelle Sale monumentali della Biblioteca Nazionale Marciana, la mostra documentaria “Mani femminili. Il lavoro delle donne per la storia della moda a Venezia nei secoli XVI – XVIII”, organizzata dall’Archivio di Stato di Venezia in collaborazione con la Biblioteca Nazionale Marciana, il Centro Tedesco di studi veneziani e l’Assessorato alla Cittadinanza delle Donne e alle Attività Culturali del Comune di Venezia.
L’esposizione, che sarà aperta al pubblico fino al 7 aprile con ingresso dal Museo Correr, è stata curata da Michela Dal Borgo con Alessandra Schiavon, e rivolge la sua attenzione al ruolo delle donne nell’ambito del lavoro “non tacendo - come scrive Raffele Santoro, direttore dell’Archivio di Stato nell’introduzione al catalogo - che quando si affronta il tema del lavoro femminile non si deve mai dimenticare la grande fatica quotidiana del lavoro domestico, non soggetto nei secoli ad alcuna regolamentazione, neppure larvale, e quindi suscettibile di maggiore sfruttamento per le donne stesse. Le forme del lavoro sociale femminile, proprio in quanto tale, rivelano l’intima essenza di una qualsiasi aggregazione sociale, dicono tanto sui rapporti fra uomini e donne, ma sugli stessi rapporti fra gli uomini, e sulle loro caratterizzazioni nel senso di consuetudini giuridiche che discendono da rapporti più profondi nel grembo della società, i quali proiettano la loro ombra ben oltre il periodo storico nel quale sono indagati.”
Nella mostra i documenti scelti vanno ad attestare come la mano d’opera femminile venisse utilizzata, e in alcuni contesti territoriali anche valorizzata, per la provata abilità di lavorare panni d’oro e d’argento, di lino e di lana, di filare la seta grezza in modo netto ed uguale, nel rispetto delle puntuali prescrizioni indicate nei capitolari delle arti. Al contempo si conferma, nella legislazione prodotta dalle varie magistrature della Repubblica, dai Savi alla mercanzia all’Inquisitore alle arti alla Deputazione del commercio, l’attenzione minuziosa alla qualità del prodotto come interesse proprio dello Stato che vuole garantire - nel commercio verso gli esteri stati – il buon nome di sé stesso. Dalle relazioni e dalle indagini effettuate per conto delle magistrature veneziane, e conservate negli archivi veneziani, si affacciano nomi (e nomignoli) di garzone e lavoranti, di maestre e capimastre, distribuite nei sestieri della città, nei suoi monasteri e nei suoi ospedali, come quello della Pietà o degli Incurabili, ma anche nei territori del Trevigiano, di Bassano, del Friuli, di Padova: nomi che forse si affacciano alla storia solo in quegli elenchi semplici e un po’ sbiaditi, ma che rinviano ad esistenze connotate da specifiche professionalità ed elevate specializzazioni.
Anche grazie al lavoro di queste preziose mani femminili, Venezia si è qualificata nel mondo con i suoi merletti, le sete, le stoffe di lino, gli arazzi, le perle di vetro.