Jannis Kounellis
A distanza di quasi un quarto di secolo l’artista torna a Torino e orchestra lo spazio in una complessa unità dove ogni singolo elemento è parte di una affermazione corale. Presenze reali di un luogo fisico, le opere definiscono una geografia esistente e si impossessano di un luogo mentale nella forza della loro apodittica e perentoria verifica di esistenza.
Comunicato stampa
La mostra di Jannis Kounellis da Giorgio Persano segna una tappa fondamentale nel discorso artistico contemporaneo.
A distanza di quasi un quarto di secolo l'artista torna a Torino e orchestra lo spazio in una complessa unità dove ogni singolo elemento è parte di una affermazione corale. Presenze reali di un luogo fisico, le opere definiscono una geografia esistente e si impossessano di un luogo mentale nella forza della loro apodittica e perentoria verifica di esistenza.
Un corridoio visivo con quattordici gigantesche strutture a forma di cavalletto sostengono altrettanti ferri sui quali sono agganciati pesanti soprabiti scuri uniti tra loro da ruvide cuciture. Si innalzano in un corteo taciturno e grave e, come parvenze affidate al vento, si ergono e portano verso l'alto queste figure disabitate, esseri impietosi di un dramma in atto. Impietosi e inflessibili come la frontalità davanti alla quale si è posti immediatamente, in un'affermazione categorica di prova esistenziale, di realtà vitale. Ma come in una tragedia, dai profondi radicamenti nel mito, i personaggi esigono un complesso di voci che devono risuonare di altrettanta drammatizzazione.
Seguendo diversi registri, tre partizioni si intonano ad accompagnare l’azione in un insieme di straordinaria potenza. Nel primo, sono ancora i ferri a ritmare il timbro in un effetto di sutura torta e opprimente. Non più uniti tra loro ma involti singolarmente in un’inestricabile forma chiusa, gli abiti denunciano un’impossibilità. L’impossibilità di chi ha la coscienza di un’ardua impresa, dell’artista consapevole del suo ruolo nella società e nel mondo. E qui la sospensione di questo canto monodico si fa improvvisa nell’immagine a terra dei panni avvoltolati e costretti da un binario che li imprigiona in un viaggio senza tempo, in un viaggio proiettato verso l’infinito. Nel terzo passo, dalla stessa misura umana, le pareti si animano di altre presenze. Sono sempre i gravosi tessuti a interpretare la parte dell’opera. Tesi, si allungano a coprire la superficie e ad avvolgerla come una pelle spessa, bramosa di districarsi dal suo supporto e, allo stesso tempo, impotente a sciogliersi dalla presa.
Una mostra di grandissima forza e tensione che rinsalda i presupposti dell’avanguardia con una sferzata che chiama alla riflessione e incita a una imperativa e categorica forma di resistenza civile.