Haunting Spells. Fare mondi altrimenti

Group Show Haunting Spells. Fare mondi altrimenti, a cura di Arnold Braho.
Comunicato stampa
Testo Critico
A ritroso
Il concetto di work in regress, formulato da Claudio Costa (Tirana, 22 giugno 1942 – Genova, 2 luglio 1995) alla
fine degli anni Settanta e presente all’interno della sua pratica artistica per il decennio a seguire, rappresenta una
delle elaborazioni più radicali del rapporto tra arte, cultura materiale e storia nella seconda metà del Novecento.
A differenza dell'idea di progresso, ossia un avanzamento lineare e accumulatorio, work in regress indica un
tentativo di ritorno all’origine, non regressivo in senso patologico, ma piuttosto come gesto critico capace di
disinnescare le forme dominanti della razionalità moderna. Si tratta innanzitutto di un processo archeologico e
sintomatologico, una ricerca che assume la crisi come condizione fondativa e operativa: crisi della forma, crisi del
soggetto, crisi della presenza.
La sintonia con il pensiero di Ernesto De Martino nell’opera di Costa è evidente: il work in regress sembra
emergere dalla stessa “crisi della presenza1” che l’antropologo descrive come il momento in cui la persona perde
il proprio radicamento nel mondo e nella cultura. In questa soglia critica, in questa fine del mondo, il reale cessa
di essere familiare, le coordinate simboliche vacillano, e il soggetto rischia di dissolversi. Se per De Martino è
proprio in questa dimensione liminale che si rende necessaria un’azione rituale o simbolica capace di restituire
senso e orientamento, per Costa sono le culture contadine, le pratiche alchemiche, e le forme di sapere oscurate
dalla modernità ad essere dispositivi per affrontare l’indicibile e ripensare le forme della vita attraverso l’arte, una
via per fare mondi altrimenti: spazi di resistenza alla scomparsa simbolica, sociale e politica dei soggetti e delle
comunità.
In questa ottica la pratica artistica di Costa costruisce un sistema concettuale e visivo dove l’origine è costellata
da forme e pratiche primarie, intese come campo operativo in cui innescare trasformazioni simboliche. Le opere
dell’artista - tanto quanto le sue attivazioni alteristituzionali come il Museo di Antropologia Attiva2 - sono da
considerarsi allora una serie di spie capaci di instaurare un paradigma indiziario rivolto alle forme del sapere3, che
consentono di decifrare una realtà opacizzata, ma anche di ricostruire una serie di attitudini nate dall’esperienza
di un antagonismo culturale, attraverso l’utilizzo di materiali organici, oggetti residuali e frammenti di culture
considerate marginali.
Il progetto espositivo Haunting Spells. Fare mondi altrimenti tenta quindi di restituire una genealogia tra le pratiche
pionieristiche di Claudio Costa e quelle di una generazione di artisti emergenti che ne raccolgono l’eredità. L’opera
Il cielo, guardando… (1978) che apre la mostra in questo orizzonte, attraverso una politica dello sguardo — verso
l’alto, verso il cielo — si riferisce ad una politica del posizionamento: un modo di situarsi nel mondo dal basso,
mettendo in crisi le gerarchie della conoscenza.
Haunting Spells. Fare mondi altrimenti
Il titolo della mostra richiama, da un lato, l’haunting: la dimensione spettrologica del ritorno di ciò che nella storia
è rimasto non detto o risolto; dall’altro, gli incantesimi: intesi qui come atti trasformativi capaci di incidere
simbolicamente sulla realtà. Questa concatenazione concettuale, si presenta fin da subito nell’installazione site-
specific Inner Etnobotanic Cartography (2025) di Peng Shuai Paolo (1995), esplorando il rapporto tra natura,
medicina tradizionale e diaspora. L’opera si compone di una serie di oggetti e interventi artistici che intrecciano
storie personali, pratiche sciamaniche e tradizioni erboristiche di diverse culture, con un focus particolare sulla
Cina e l’Italia rurale. Al centro dell’installazione si trovano alcune casse di legno, archivi su cui sono incise trame
naturali e simboli bilingui, tra cui la frase
“即可杀既可生 / TO KILL AND TO CURE”, che rimanda al potere
ambivalente delle piante medicinali e dei rimedi tradizionali.
1 Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo alle analisi delle apocalissi culturali, a cura di Clara Gallini, Torino, Einaudi, 1977.
2 Nel 1975 Claudio Costa fonda con Aurelio Caminati il Museo di Antropologia Attiva a Monteghirfo (Favale di Malvaro), allestendo in una casa
contadina intatta una raccolta di oggetti della cultura materiale, esposti nel loro contesto originario. Il progetto intendeva preservare il significato
antropologico degli oggetti e opporsi alla loro musealizzazione astratta.
3 Carlo Ginzburg, Miti, emblemi, spie. Morfologia e storia, Adelphi, 2023;
All’interno dell’installazione, elementi naturali e rituali dialogano con oggetti di uso quotidiano e simboli ancestrali:
dalla pianta di Artemisia verlotiorum raccolta e conservata secondo usanze popolari, al piffero di bambù testimone
di una Cina pre-rivoluzione culturale, alla ciottola ceramica utilizzata come dispositivo esoterico. La presenza di
semi di loto antropomorfi, ventagli di palma e bastoncini di Moxa accendono riflessioni sul ciclo vitale delle piante
e sul loro ruolo curativo. Il lavoro si completa con pitture e incisioni che raffigurano scorci della casa natale a
Xiangtan, con ritratti familiari che celebrano la tradizione contadina e sciamanica, e con testi antichi, come il Tao
Te Ching, inciso anche qui in modo da ribaltarne la lettura, contro il tempo e la linearità della conoscenza.
Nel lavoro di Ginevra Petrozzi (1997), la scultura si fa strumento per connettere oggetti rituali — amuleti,
talismani, ex-voto — alle infrastrutture tecnologiche contemporanee. Il progetto Congregation of Mysteries (Ex-
votos) (2024), sviluppato presso la Jan van Eyck Academie, concepisce queste forme come tecnologie arcaiche
del desiderio e della protezione, interrogandone la persistenza simbolica nell’era digitale. Ex-voto e talismani
agiscono qui su temi come sorveglianza, mining e automazione, evocando miracoli possibili e impossibili. Simboli
magici della tradizione mediterranea — come l’occhio apotropaico o la mano cornuta — vengono ricombinati e
tradotti in due registri differenti: da un lato, come oggetti pregiati esposti in una teca, che rievocano la logica votiva
del dono e dell’intercessione; dall’altro, nella serie Congregation of Mysteries (Amulet), come interventi diretti su
display digitali, dove l’incisione del simbolo avviene sulla superficie stessa dello schermo. Non si tratta di citazioni
folkloriche, ma di un tentativo esplicito di fabbricare talismani contemporanei — dispositivi che abitano la soglia
tra protezione e vulnerabilità, necessari a evocare miracoli precisi, quasi paradossali nella loro intenzione come
la liberazione di Julian Assange come gesto di giustizia globale; oppure la crescita di un albero da un centro dati.
Uno scettro ricurvo, fuso in alluminio, grezzo, attraversato da sbavature e imperfezioni: è a partire da questo
oggetto che Alessandro Di Lorenzo (1996) costruisce una riflessione sul potere fondativo dell’immaginazione.
Ispirato ai bastoni degli àuguri — i sacerdoti dell’antica Roma che tracciavano nel cielo uno spazio sacro per
interpretare il volo degli uccelli — il suo lavoro concepisce la scultura come strumento per articolare un legame
tra gesto divinatorio e costruzione simbolica del mondo. Nel progetto sviluppato nel 2025 presso la residenza
Castro, questo utensile per immaginare un mondo possibile non possiede una forma definitiva, ma abita una zona
liminale tra rovina e prototipo. Curvo come il vomere dell’aratro sacro con cui si tracciavano i confini della città, lo
scettro evoca un doppio movimento: fondare e distruggere, delimitare e superare. Se in origine questo gesto
serviva a stabilire i limiti entro cui poteva nascere la civitas, lo stesso aratro veniva poi utilizzato per spezzare quel
confine, per annullarlo, rendendolo reversibile. Di Lorenzo si inserisce in questa ambiguità, trasformando un
oggetto dalla funzione arcaica in un dispositivo speculativo. Un attrezzo per la divinazione del presente, una
protesi simbolica per leggere lo spazio — e, forse, rifondarlo.
Sentinel (2024) di Sofia Salazar Rosales (1999) ha la sembianze ambigue di un oggetto che sta tra una rosa e
una girandola del vento: qualcosa che potrebbe indicare una direzione, ma che sembra essersi fermata in un
tempo non più misurabile. Piombo, ferro e rame — materiali ossidati — compongono un oggetto che pare sia
emerso lentamente da un processo alchemico. Non è chiaro se sia un frammento naturale o un dispositivo di
rilevazione del tempo: Sentinel sta nel mezzo, sospesa tra funzione e forma,in attesa del respiro del vento. Il titolo
suggerisce una veglia silenziosa e come spesso accade nel lavoro dell’artista, anche qui il gesto scultoreo risulta
un modo per interrogare ciò che resta dopo il movimento, ciò che — stanco — cerca una radice, anche provvisoria.
A chiudere il progetto è l’installazione STRESS (2024) di Stefano Serretta (1987), che concepisce il corpo come
zona liminale: luogo di piacere, di soglia, e di conflitto, dove si inscrivono le tensioni storiche e politiche delle
soggettività queer. Le incisioni su marmo presentano una serie di disegni realizzati a partire da riviste erotiche e
pubblicazioni censurate del primo Novecento, conservate nell’archivio LGBTQIA+ del Centro di Documentazione
Aldo Mieli di Carrara. Questi frammenti di storia assumono una dimensione spettrologica che rimette in
discussione il confine tra ciò che è stato considerato marginale e ciò che al contrario abbiamo preservato come
degno di memoria. Ci obbliga così a confrontarci con le faglie, le omissioni, le contraddizioni di un archivio
incompleto e parziale. Cos’è lo spettro allora se non un'interferenza che rende necessario l’atto di rivedere,
riscrivere, reimmaginare?
Arnold Braho