Gotico Industriale

Informazioni Evento

Luogo
CENTRO D'ARTE CONTEMPORANEA - CASTELLO DI RIVARA
Piazza Casimiro Sillano 2, Rivara, Italia
Date
Dal al
Vernissage
13/06/2021

ore 10.00 - 12.00 | 14.00 - 18.00

Curatori
Franz Paludetto, Fabio Vito Lacertosa
Generi
arte contemporanea, collettiva
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Un progetto museale che guarda a Torino.

Comunicato stampa

"GOTICO INDUSTRIALE"
Salvatore Astore | Maura Banfo | Domenico Borrelli
Adriano Campisi | Carlo D’Oria | FerdiI Giardini | Paolo Grassino
Enrico Iuliano | Paolo Leonardo | Nicus Lucà
Sergio Ragalzi | Francesco Sena | Luigi Stoisa...

a cura di
Franz Paludetto

GOTICO INDUSTRIALE
Un progetto museale che guarda a Torino

Misurarsi con il vuoto è il lavoro quotidiano dell’artista.
Preservare questa misura e darne voce, affinché la ricerca divenga visibile e leggibile, è invece l’onere di chi immagina, cura e produce le mostre.
Dalla scintilla di genio di un ‘irregolare’ par exellence come Franz Paludetto e dal fermento sviluppatosi intorno a Gotico Industriale – la mostra collettiva che abbiamo realizzato nel 2018 – si è fatta strada l’esigenza di costruire intorno all’esposizione un sito permanente, che potesse guardare a Torino con passione ma a qualche chilometro di distanza (critica).

Lo sbocco museale è da considerarsi perciò una specie di deriva naturale, un luogo comune degli addetti ai lavori che si realizza: mettere al centro ancora una volta la città. Tanti osservatori hanno infatti chiosato in tal senso, e chiesto più ambizione per una struttura che stava rappresentando senza ipocrisie un capitolo della storia recente dell’arte italiana ormai difficile da ignorare, da cancellare.

Gli artisti presenti, a rappresentare il nucleo - mi si passi il termine “storico” - sono Salvatore Astore, Maura Banfo, Domenico Borrelli, Adriano Campisi, Carlo D’Oria, Ferdi Giardini, Paolo Grassino, Enrico Iuliano, Paolo Leonardo, Nicus Lucà, Sergio Ragalzi, Francesco Sena, Luigi Stoisa.

Gotico Industriale mette in evidenza, in una chiave unitaria, due generazioni di artisti che hanno lavorato dagli anni ‘80 ad oggi, restituendone una lettura e una sintesi politica esemplari.
Gotico nel senso di “vertiginoso” e “barbaro”, una sorta di stato di ebbrezza e orrore di essere altro dal progresso, simultaneamente centrifughi e centripeti rispetto al sistema dell’arte.
Industriale, invece, da intendersi nel doppio e opposto senso di “nativo industriale” (una vita mediata dai ritmi operai), e di “post industriale” (la percezione di un futuro sempre meno strutturato intorno a quella mediazione).

I primi processi di dismissione del modello fordista e la perdita di centralità della produzione hanno l’effetto di costringere tutti, negli anni ’80 (più o meno consciamente), a prefigurare un domani senza Fiat (e quel domani è oggi). Un mondo governato da presse, tripli turni, ferie obbligate, tramvai che puntano verso Piazza Caio Mario, si trova a fare improvvisamente e progressivamente i conti con i sintomi della caduta, le avvisaglie della fine di un paradigma consolidato.
Una dissolvenza nostalgica che definiamo, con una punta feticista, “ideologia del baracchino” (dal nome della nota “gavetta” in uso tra gli operai).

Gli artisti del Gotico Industriale, che dagli anni ’80 sono egualmente inattuali rispetto alla musealizzazione vivente poverista e al post-modernismo colto, si mettono in gioco attraverso una riappropriazione “crudele” della figurazione nonché un uso duro dei materiali della grande produzione. E proprio mentre la Torino-metafora del paese praticamente si dissolve, in una metamorfosi di lungo respiro che è in corso ancora oggi, essi mettono al centro della loro “ribellione” l’uomo, la figura umana e le sue deviazioni, in una sorta di umanesimo dolente e contrariato.

Le opere hanno spesso il colore della ruggine, dei materiali sintetici, del petrolio. L’uso degli spazi tratteggia una denuncia simbolica e geografica di (in)appartenenza. La magniloquenza non è sinonimo di monumento, la partecipazione alla vita culturale della città non è sinonimo di integrazione.
Anzi, si va sviluppando un’attitudine vagamente nichilista che si contrappone a quella paternalista dell’artista sciamano, dell’artista poeta, dell’artista sacerdote. Si pongono dubbi sul protagonismo stesso di una figura chiave della civiltà occidentale.

In un orizzonte lontano da ogni neo-positivismo, dunque, i tentativi di raggiungere strade inusitate devono necessariamente passare per una forca di mostruosità.
E nel momento in cui nasce l’istituzione per eccellenza - il Museo di Rivoli - che investe la scena internazionale con la visione molto particolare di Rudy Fuchs, germinano quasi di nascosto nuove forme di figurazione gotica ed industriale.
Forme nate in deserti urbani, nere e solidificanti come la pece, rugginose come l’aria dei cosiddetti battilamiere e filologicamente anarchiche come una serie di rivolte senza apparente organizzazione. Da questo bagno di solitudine e con il carico liberatorio di chi viene finalmente a patti con le immagini del monstrum, il rimosso, si finisce per stabilire la più grande e definitiva cesura dal mondo dell’Arte Povera.

E non solo. È il concetto stesso di collettivo che viene progressivamente a minarsi e la stessa possibile idea di concepirsi come gruppo. Ma se negli anni ’80, dalle frange del nichilismo potevano riemergere ancora il respiro e il volume della piazza, del conflitto, come echi depressivi di una sala svuotata da poco, negli anni ’90 la dimensione diventa più piccola e la relazione col mondo più complicata. I riferimenti degli artisti, oltre a quelli rappresentati dalla celebre mostra Post-Human di Jeffrey Deitch, sono convergenti verso un lavorio mediale che culmina in una serie di processi di contaminazione con il fumetto, la musica e il cinema. Potremmo definirli cronologicamente pre-olimpici, colti in una sorta di underground perennemente in fermento, dove regge ancora in pieno un assioma del decennio precedente: il rapporto di crudeltà con la figurazione.

San Bernardo di Chiaravalle, nel XII secolo d.C, analizzando lo stile gotico in relazione alla fede si domandava: “A che servono questi fogliami intrecciati con mille mostri, queste figure di satiri e di centauri, e tante modanature con bestie selvagge ed ornamenti che sottraggono alla devozione l’immaginazione del monaco? [...]”
A dire “esisto”, probabilmente, senza esserne sicuri del tutto.

testo di Fabio Vito Lacertosa