Giulia Federico – La voce del silenzio
Dilatare la forma per dilatare il tempo, entrare a poco a poco in un quadro come si fa con un bosco o il quartiere sconosciuto di una città, farne parte e scoprire ogni volta un diverso particolare, quasi che il disegno possa esprimere stati d’animo e umori.
Comunicato stampa
Dilatare la forma per dilatare il tempo, entrare a poco a poco in un quadro come si fa con un bosco o il quartiere sconosciuto di una città, farne parte e scoprire ogni volta un diverso particolare, quasi che il disegno possa esprimere stati d’animo e umori.
Si cammina, nelle grandi carte di Giulia Federico, si percorrono strade e campi immaginari, si affrontano pendii e burroni, forre e stretti sentieri, sembra quasi di affondare i ramponi nella ruvida buccia del melone, e quei semi “in vetta” sono sassi a indicare una traccia che arriva fin nel profondo del nostro sentire.
Disegnare è per l’artista milanese il modo di piegare il tempo al suo corso di pensieri, perché le ore trascorse davanti al foglio bianco sono in realtà una meditazione nel proprio io, il sistema per arrivare all’intimità delle cose, alla loro conoscenza “spirituale”.
Così le sue nature morte, con la loro “vita ferma”, cristallizzata, diventano paesaggi della mente, luoghi da indagare e descrivere con la curiosità dell’esploratore, passo dopo passo, segno dopo segno, sfumatura dopo sfumatura. I chicchi d’uva sembrano avere vene in rilievo, come quelle delle mani di un artefice che scava nella terra, il guscio della noce è il coperchio della saggezza, contenuta nel gheriglio come nelle anse del nostro cervello.
Ed è interessante scoprire come Giulia Federico ami queste volute di silenzio, il “ruit hora” che sovrintende la fuga dei minuti e dei giorni, la contemplazione dei neri e dei grigi che animano il bianco setoso del cartoncino Schoeller miniato dalla punta della sua matita. Lei che discorre spesso con i suoni, da arpista e buona ascoltatrice, esprime se stessa nella muta realtà del ricreare un mondo di giganti vegetali, sintetizzando mesi di lavoro in “sinfonie” da udire con gli occhi anziché con gli orecchi, ma alle quali ognuno di noi può destinare una musica, un canto sospeso.
La “lente” che Giulia adopera per farci parte dei segreti di frutta e verdura, spogliandole del loro significato gastronomico e presentandole come soggetti anatomici, corpi da osservare con cura, viscere apparecchiate con sottile ironia: l’artista ci avverte che ciò che mangiamo è assai diverso dall’immagine dell’uva del melograno o del melone composta nel nostro cervello da secoli, quella di un cibo amorfo, senza consistenza di vita, da consumare o gettare in pattumiera.
«Si dipinge con il sentimento», sosteneva Jean Siméon Chardin, colui che fece scattare il meccanismo dell’arte nella studentessa di Brera Giulia Federico, l’autore di inarrivabili nature morte, della stessa semplicità indagatrice di una pagina proustiana, piene di mistero e pure così vive, perché pervase dal carattere della persona che sta per sorbire il caffè fumante nella tazza o per addentare una delle albicocche sciroppate chiuse nel barattolo.
Così, ammirando un disegno della Federico, superato lo stupore per il virtuosismo tecnico e quello per le proporzioni alterate di un acino o di un picciolo, si passa alla riflessione, all’ammirazione per quanto la Natura riesce a costruire con mezzi cristallizzati nel tempo, e alla considerazione di come sia sufficiente mutare il punto di vista per inventare nuovi universi, dar loro forma e vita e riempirli di sogni.
Quello di Giulia è di dedicare l’esistenza all’arte, alle infinite possibilità che offre un pezzetto di grafite, perché il disegno è padre della pittura e della scultura e va praticato ogni giorno, come il pianista fa con gli esercizi tecnici e il monaco con la preghiera.
Nei mesi trascorsi davanti al foglio, in un infinito esercizio di pazienza e di autocontrollo, l’artista lavora per noi, ci prende per mano, guidandoci nelle meraviglie nascoste di un dono naturale, strizzando l’occhio allo scorrere del tempo e ritornando a consonare con un ritmo più antico, lontano dal vorticare della vuota modernità. Un ritmo simile a quello del respiro, vitale e sonoro, in cui la luce gioca in contrappunto, esaltando curve e fessure, regalando dettaglio nel dettaglio, insegnandoci – di nuovo – a vedere da vicino.
Perciò dobbiamo dire grazie a questa giovane disegnatrice, per averci riportato a un tempo altro, alla nobiltà dell’artigianato pittorico, allo studio e alla calma, al paradosso di un’introspezione mediata dall’ingigantirsi delle forme, alla sonorità di lunghi e maturati silenzi.
Mario Chiodetti