Giancarlo Lamonaca – Nubi
La nuvola è un universo di forme in continua trasformazione: è il simbolo più patente dell’indeterminazione. Non è afferrabile, non è dominabile: è un elemento aereo, mobile, evanescente.
Comunicato stampa
La nuvola è un universo di forme in continua trasformazione: è il simbolo più patente dell’indeterminazione. Non è afferrabile, non è dominabile: è un elemento aereo, mobile, evanescente. E quindi astratto. Come fissare in un’inquadratura fotografica qualcosa che non ha una traccia definita, una presenza irriducibile? Come registrare in maniera oggettiva ciò che è emblema del sogno, del viaggio, del mistero, del sacro? Ebbene, Giancarlo Lamonaca sembra fare suo quello che era anche l’intento di Luigi Ghirri: quello cioè “non di scattare foto, ma di costruire immagini”.
Così, quando egli mette a fuoco il cielo non si pone l’obiettivo di coglierlo secondo una connotazione di tipicità (un cielo carico di cirri o di cumuli o di nembi), quanto invece di sorprenderlo secondo un criterio di generalità. Anzi: il suo permanere sull’identico soggetto lungo tutta la sequenza fotografica gli permette di andare aldilà del puro dato fenomenico in sé, per intuire le infinite relazioni enigmatiche latenti nel fondo dello stesso dato. Il suo, direbbe Michail Bachtin, è una sorta di “testo plurimo, dialogico, polifonico”. Lamonaca, in altre parole, fa diventare il cielo la sua “Sainte-Victoire” da osservare così intensamente e così a lungo da perdersi nell’enigma della sua visione.
E’ ovvio che per ottenere tutto questo l’artista ricorra alla modificazione digitale: che aggiunga, sottragga, alteri, ritocchi fino a conseguire un effetto di fantasmatica sovrimpressione tra paesaggio esterno (il reale) e paesaggio interno (l’immaginario). Un po’ come succede nei disegni a macchia dell’inglese Alexander Cozens (che fanno da “pendant” all’interesse di Leonardo per le tracce lasciate sui muri dall’umidità): lì, come nelle foto di Lamonaca, oltre che le ipotetiche formazioni nuvolose, ognuno può vedere quel che vuole: le figure del suo desiderio, le immagini del suo teatro, i segni della sua cultura. Quello che è certo è che ogni elemento descrittivo ed ogni dettaglio lascia il posto al gusto tutto contemporaneo per le estensioni aperte, l’assenza di limiti e frontiere, il desiderio di libertà visiva. Più nessuna analisi scientifica, nessuna osservazione del cielo e dei fenomeni atmosferici: solo divagazioni nel campo dell’oscurità, dell’effimero, del cambiamento. E se nella Storia dell’Arte troviamo immagini dove una nuvola è dipinta solo per collocarvi sopra un angelo o per formare e contemporaneamente mettere in crisi lo spazio prospettico, Lamonaca prende partito per una “nuvolosità” che invade l’intero spazio rappresentativo.
Allora, i referenti possono diventare Turner o Constable con la loro ricerca di estensioni infinite, animate dall’agitarsi di grandi forze cosmiche. Solo che le loro visioni si ergono su spessori e densità, ossia su una pittura che si identifica totalmente con la materia della realtà, mentre la fotografia è generata da una strana macchina fatta di calcolo e di luce. E, perciò puntarla verso il cielo vuol dire sottrarsi davvero ad ogni cosa conosciuta, produrre segni puri invece che segni naturali. “E’ in questa non possibile delimitazione del mondo fisico – scrive ancora Ghirri – che la fotografia trova senso”. Va da sè che lo stesso soggetto preso in considerazione (la nuvola) viene in qualche modo re-inventata, riformulata come assoluta scoperta. E’ quanto capita anche al fotografo di Antonioni (in “Blow-Up”) il quale, alla maniera di un alchimista, produce e riproduce nel suo studio una serie infinita di stampe nel tentativo di arrivare al cuore della realtà. Ma per quanto scruti, non perviene a scoprire nulla e anche se prova ad ingrandire l’immagine, finisce solo per ingrandire la “grana della carta”, a disfare la foto. Così, lo sguardo di Lamonaca che tenta di immergersi nella pericolosa avventura di cogliere cieli infiammati e tempestosi, sembra paradossalmente liquefarsi e bruciarsi nel suo stesso smisurato gesto. C’è sempre un po’ di follia nel voler superare i limiti del “fotografabile”: vuol dire rischiare di bruciarsi le ali come una farfalla che si avvicina troppo alla luce. Vuol dire smascherare tutta l’ambiguità della fotografia, rimanere fulminati dai suoi caratteri di seducente finzione. Tanto che qui ci si potrebbe chiedere se siamo davanti a visioni di nuvole corrusche o a foto che si stanno letteralmente consumando, incendiando. Ma non è, proprio questa, l’eterna ambiguità o elusività delle immagini: mostrare e insieme nascondere, riprodurre il mondo e insieme trasformarlo? (dal testo di Luigi Meneghelli in catalogo)