Feliscatus – Isole e Frutti

Informazioni Evento

Luogo
MUNICIPIO DI SALE
Via Manzoni, 1 , Sale, Italia
(Clicca qui per la mappa)
Date
Dal al

Giorni e orari di apertura
19 luglio ore 18-23
20 luglio ore 17-19 e 21-23
25, 26, 28 luglio ore 21-23
27 luglio ore 10,30-12 17-19 e 21-23

Vernissage
19/07/2014

ore 18

Contatti
Email: aicsale@yahoo.it
Artisti
Feliscatus
Generi
arte contemporanea, personale

Mostra personale.

Comunicato stampa

È dal 1987 che, di tanto in tanto, sento la necessità di misurarmi con il tema dell’Isola e del viaggio, il cui periodico ritorno non appare dovuto al caso ma sembra rispondere, con un calcolo preciso le cui matematiche coordinate mi sfuggono, all’avvicendarsi degli altri cicli pittorici che accompagnano o seguono i più vari mutamenti dell’umore. Da una fase all’altra, di conseguenza, mi è più facile notare le variazioni improvvise, l’avventura che si apre su una strada inattesa, l’apertura di un varco, una teoria di spunti e di connessioni sommerse tra quelle che via via si accumulano e accantono. L’isola diventa così una verifica che si presenta come necessaria e improrogabile, un paletto segnatempo, uno strumento utile al mestiere di pittore, un punto di svolta, il repentino cambiamento di una rotta valida, senza dubbi di sorta, fino a poco prima. Perciò in essa trovo una certa similitudine con gli autoritratti che, sul volto di Feliscatus, da anni cercano conferme alla giustezza di una scelta, indagano gli inevitabili strati, visibili e invisibili, che il tempo sovrappone uno all’altro, e la continua intermittenza, tra alti e bassi, euforia e stasi, di quell’inafferrabile cosa che semplificando chiamiamo creatività. Come pure attendono il concreto progetto di un futuro; e, dall’innovazione in su, il coraggio per proseguire.
L’isola è una barca che, dopo essersi spostata in lungo e in largo per i sette mari, decide di smettere di viaggiare. Dopo aver molto navigato si ferma e mette radici. E lo fa senza mai allontanarsi dall’acqua, non più di tanto; si lascia lentamente posare sulla spiaggia di fronte al mare, oppure, qualche volta, interrompendo un viaggio ancora in corso e fermandosi, mette le radici direttamente in quel mare, nell’acqua amica che così bene conosce, che tanto ha navigato. Per esser precisi la barca non smette di viaggiare, o meglio, fisicamente lo fa ma cambia sistema e metodo di moto. Non si sposta ma viaggia con l’immaginazione, dalla quale viene la capacità di sognare, il diritto a poterlo fare; rifiorisce e rinasce, comincia a viaggiare con le idee: da barca in movimento diventa terra cognitiva, luogo del pensiero e dell’immateriale realizzazione di aspirazioni e fabbriche di sogni, appunto isola; isola delle idee. L’isola, quindi, prima di diventare tale era una barca che, lasciando mollemente cadere sopra di sé la sua vela a mo’ di calda coltre, protettivo indumento, suolo aggrovigliato pulsante e vivo, oppure corpo erboso increspato e fecondo, e facendo progressivamente rifiorire l’albero, appesa al quale la vela svolgeva insieme al vento la funzione di motore propulsore, è diventata a pieno titolo isola. Essa è semicoperta o coperta quasi del tutto dal proprio manto-vela, spesso di colore rosso, che con le sue pieghe e volute rende manifeste una densa e vissuta memoria fatta di numerosi e straordinari viaggi e una pronunciata, intrinseca vitalità che la lunga esperienza ha consolidato. Di solito è disabitata, qualche volta – e la chiamo Isola dell’attesa –, invece, è abitata da una o più donne. Ciò che fu barca, che adesso è un insieme fatto di tre interdipendenti nuclei, dall’equivalente peso, di un compiuto luogo, senza alcuna intestina lotta per la supremazia di una forma sull’altra, è adagiato sulla spiaggia che è diffusamente illuminata; a volte bianca. In alcuni dipinti è ancora sull’immenso mare, proprio come quello che sta al suo fianco quando l’isola si trova e si sviluppa sulla sabbia. Il cielo è grigio, grigio-azzurro, giallo, arancio, chiaro all’orizzonte sul far del giorno o sui toni del rosso verso sera. Il formato dei dipinti, soprattutto i più recenti (quelli del 2010), è molto allungato, ciò dilata il tempo delle isole tanto da far pensare che stiano lì da sempre con l’intenzione di restarci per sempre, in attesa di qualcosa che, in questi luoghi dove il futuro ha la forma di un piatto orizzonte eternamente presente, un bel giorno dovrà pure accadere.

Anche per le Nature morte, come per le Isole, il drappo, il tessuto che sostiene, accoglie, circonda, accarezza i frutti riveste un ruolo decisivo nella struttura compositiva del quadro. Ma non solo, è pure il movimento in sé, interno all’avvolto panno a dare il via all’opera, sono le direttrici dinamiche che partendo dal bordo inferiore del telaio si sviluppano in un crescendo rotatorio, a volte con un andamento elicoidale, altre con distensioni e contrazioni ondulatorie accentuate dai contrasti luminosi – viepiù accesi e invogliati dal rosso di cadmio pieno che in superficie si distribuisce schiarito da sparsi corpi di riflessi – che preparano il dispiegamento del ventaglio coloristico di cui la natura è tanto prodiga nei suoi frutti. E sono questi, i frutti, il punto di arrivo, il centro focale del quadro, la cui visione, e il susseguente rasserenamento dello sguardo nell’appagamento e rilassamento di un traguardo raggiunto, vengono sempre meticolosamente imbanditi dallo studio delle pieghe, prospetticamente esistenziali, che nella preparazione di questi quadri, dal preciso disegno iniziale sino ad arrivare al dipinto compiuto, non viene mai meno. Considerando incavi e rilievi, profonde ombre e calde lumeggiature, inestinguibili elementi caratteriali di una fisionomia di concetti, queste salite vertiginose di coccolate e modellate piegature, e pluriarticolate volute con serpentini scioglimenti e cascate di un pesante gabardine come di un lucido e scivoloso raso, raggiungono e tastano un obiettivo che non più appare occulto, tale è la verosimiglianza con rughe e solcature, una diversa dall’altra, tracce di pensieri e sogni impossibili sopra vissuti volti che hanno pensato e pensato su escheriane scale di valori. I frutti, poi, in piena luce o in luce radente, nell’evidenza della loro turgida bellezza o nella variegata e scarnificata moltitudine di tonali – quando appassite – sfumature, nell’alabastrino controluce di un chicco d’uva, nel crespo e lavico volto monoculare di un’arancia fossile o nell’abbagliante scorza di un limone odoroso, con la cangiante peluria di una pesca spolverata di carminio, nei lattiginosi tagli di un fico come negli abissali viola di una prugna o nell’ingresiano profilo di una pera, non mancano di affermare, con la qualità poliglotta d’innumerevoli pennellate (convinte della scelta di questa puntigliosa pittura perché era la sola che poteva essere fatta), che vivi furono, e vivi nell’arte rimarranno nell’habitat di un fondo grigio, né troppo chiaro né troppo scuro, che ad essi, multiformi e profumati frutti – in bilico su bianchi piatti inclinati sgorgati da rosati drappi, dove acini d’uva pendono e cadendo come cinguettanti pulcini si annidano –, nulla toglie. E nulla desidera aggiungere.
Feliscatus