Deragliamenti sensoriali
Comunicato stampa
Qui Nulla è digitale, nulla è irreale, tutto è materico, tutto è manuale (umano).
L’intero processo creativo dei tre artisti in mostra è tradizionale eppure così sorprendente, talvolta addirittura spaesante. Mai convenzionale.
L'ambiguità visiva-percettiva ha la prevalenza.
Sia che vengano utilizzati materiali artistici consoni sia che gli artisti si cimentino con materiali inusuali per l’arte, quello che predomina è la capacità di inventarsi una pratica, e caparbiamente percorrerla ricercando la perfezione.
E così dalle pietre dure e marmo passiamo alla malleabilità della cera pongo fino ad arrivare alla eterea dispersione della pittura.
Tutto rigorosamente affrontato senza l’ausilio di tecnologie disarmanti, tutto affrontato come una sfida corpo a corpo tra l’artista e la materia.
La ricerca si sublima sulla superficie delle singole opere.
È il trattamento della superficie che genera nello spettatore l’insicurezza visiva e l’imbarazzo percettivo.
Instaurare il dubbio, dopo una prima apparente comprensione, è ciò a cui gli artisti in mostra anelano: fornire una visione alternativa, se non opposta a ciò che sembrerebbe.
Blank, Otway e De Gaetano catturano i loro soggetti distorcendone i contorni con un illusionismo linguistico che adesca lo sguardo dell’osservatore in una sorta di trappola semantica. Il risultato è spesso un cortocircuito che fa sgranare gli occhi, e rende increduli di ciò che si ha fisicamente difronte.
L'artista gioca con l'opera e le materie con cui crea. Esemplare è "Morgan le Fay", un "tradizionale" quadro ad olio/acrilico in cui si ha, al contrario, l'illusione che si tratti di un basso rilievo in pongo.
Andreas Blank (Ansbach, Germany 1976) al contrario asseconda il materiale con cui si cimenta. Lo rispetta e si lascia suggerire dalla pietra stessa l’oggetto che infine ne emergerà.
La pratica è millenaria; la scultura affiora con martello e scalpello e, indubbiamente, con fatica fisica e profonda conoscenza delle pietre dure: alabastro, onice, basalto, porfido, serpentinite e naturalmente svariate tipologie di marmo; blocchi e lastre provenienti da cave di tutto il mondo.
Blank assembla i diversi materiali lavorati per restituire il simulacro di un oggetto comune, come una busta di plastica. Qui ricerca ovviamente il paradosso trasmutando un oggetto volatile e impermanente in un oggetto diventato ora "monumentale":
In "Plastic Bag" lavora la superficie dell'alabastro e del marmo bianco fino a fornirci un’immagine estremamente realistica; altre volte si cimenta con opere concettuali o astratte.
In tutti i casi Andreas Blank si distingue rispetto ad altri colleghi scultori che operano con i medesimi materiali per eleganza, rigore e l'onestà che dimostra verso le pietre.
Avvicinandosi ai dipinti di Jack Otway (Winchester, UK 1991) si è colti da un senso di vertigine. L'occhio dell'osservatore fatica la messa a fuoco. Qualche figura geometrica colorata, come fosse un frattale, si ripete, mai uguale a se stessa. Successivamente, avvicinandosi, si coglie uno strato evanescente e liquefatto sottostante: è questo strato che crea volumi illusori, profondità siderali che si risolvono esclusivamente sulla superficie della tela.
La stratificazione di svariati processi pittorici di addizione come di sottrazione restituisce la complessità visiva: gli strati trasparenti tratteggiano fantasmi di immagini residue. Quasi degli ologrammi simili a vortici spigolosi in cui si rischia di essere risucchiati. Geometrie complesse che si immergono in materia liquefatta e nebbiosa. Tuttavia, materialmente, queste opere sono estremamente piatte (quasi fotografiche) ma presentano l'illusione di profondità claustrofobica e superficiale, una sensazione di oscura profondità pur risolvendosi in pochi micron di dissolvenza.
È la finitura della superficie, scultorea o pittorica che sia, che funge da interfaccia tra la materia lavorata dall'artista e il fruitore. Ed è questa membrana che nelle opere in mostra porta il visitatore a travisare ciò che ha difronte.