Armando Lulaj – No Room for Manoeuvre 3
IL PIÙ GRANDE ARTISTA DI DOMANI SARÀ FORSE QUELLO CHE HA GIÀ DISERTATO, QUELLO CHE HA ABBANDONATO TUTTO AL MOMENTO GIUSTO, NON PIÙ QUELLO CHE CONTINUA AD AGIRE SOTTOTRACCIA.
Comunicato stampa
THE GREATEST ARTIST OF TOMORROW MAY BE THE ONE WHO HAS ALREADY DEFECTED, WHO ABANDONED EVERYTHING AT THE RIGHT MOMENT, AND NOT THE ONE WHO CONTINUES TO ACT BETWEEN THE LINES.
IL PIÙ GRANDE ARTISTA DI DOMANI SARÀ FORSE QUELLO CHE HA GIÀ DISERTATO, QUELLO CHE HA ABBANDONATO TUTTO AL MOMENTO GIUSTO, NON PIÙ QUELLO CHE CONTINUA AD AGIRE SOTTOTRACCIA.
INAUGURAZIONE GIOVEDÌ 30 MARZO DALLE 16.00 ALLE 20.00
Armando Lulaj (Tirana 1980) è creatore di immagini sovversive e autore di opere teatrali, testi su territori a rischio, film. I suoi temi di interesse sono la corruzione, l’indifferenza verso i diritti umani e la libertà di parola, la critica istituzionale, il ruolo dei media, la manipolazione di questioni legali e giuridiche da parte dello Stato, il potere economico, la democrazia fittizia e la disparità sociale nel contesto globale. È fondatore e co-direttore del DebatikCenter of Contemporary Art di Tirana. Nel 2015 ha rappresentato l’Albania alla Biennale di Venezia. Presso la galleria ARTRA ha tenuto tre personali: Mainstream Dissent nel 2006, Nessuna Pietà nel 2011 e Bilbao nel 2020.
No Room for Manoeuvre 3 costituisce la terza mostra di un progetto espositivo concepito dall’artista come “un dramma in cinque atti” (il primo e il secondo dei quali sono già stati messi in scena rispettivamente nella galleria Paolo Maria Deanesi Gallery di Trento nel 2015, e al DebatikCenter of Contemporary Art di Tirana nel 2017).
La trama di questo terzo atto prende avvio da una foto datata Brindisi 1990: un uomo col torso nudo, attorniato da cameraman, fotografi e militari, dà le spalle all’obiettivo e si incammina, con un atteggiamento probabilmente noncurante della situazione. Si tratta, scrive Lulaj, della “prima immagine fotografica scattata da un immigrato albanese nel preciso momento in cui il suo compagno - ma anche egli stesso - ‘tocca’ il suolo straniero”. Un istante a suo modo solenne, l’inizio di una lunga e tormentata vicenda, che però viene quasi sabotata dal quel dare le spalle alla storia, dal “disertare” (un verbo su cui si focalizza la poetica dell’artista) la storia stessa, perlomeno nella sua ricostruzione ufficiale architettata dal potere di turno. Questa foto diventa il primo elemento del suo Desertion Archives.
Uno sbalzo temporale ci porta nel 1997: per l’Albania è l’anno del Crash, come si intitola una “poesia lineare” di Marco Mazzi pubblicata in CONTROL, il libro di Lulaj e dello stesso Mazzi pubblicato da Silvana Editoriale nel 2020. Il 1997 è “l’anno dell’anarchia, l’anno degli schemi piramidali, l’anno della proclamazione ufficiale dello stato di emergenza”: un anno segnato da gravissime tensioni sociali, caos e criminalità dal quale ha inizio quel processo di liberalizzazione selvaggia, urbanizzazione forzata, edilizia pervasiva e incontrollata che fa dell’Albania un territorio di sperimentazione avanzata della globalizzazione. La serie di tre fotografie che compongono (excerpts) 1997 racconta la percezione di spaesamento, il senso dell’assurdo, la condizione traumatica vissuta dalla popolazione albanese in questo anno. Le immagini sono dei frame di Kronikë 97, un lungo film (mai portato a termine) che una troupe di ex cameraman e registi del vecchio Kinostudio di regime ha girato, tra l’altro, in un ospedale psichiatrico, allo zoo, in un penitenziario, in una scuola per cani-poliziotto …: una documentazione in tono naif dello shock vissuto da un’intera nazione, una strana opera tra il candido e il grottesco che, per Lulaj, “costituisce il primo film ready-made girato in Albania. Potrebbe essere l’unico materiale che tenta di portare avanti un complesso progetto di ricerca di testimonianze alternative che permettano di andare oltre le rappresentazioni deformanti che ritroviamo nelle immagini mediatiche”.
Il racconto prosegue con una serie di opere che coinvolgono l’artista stesso in alcuni frangenti della sua biografia. In Library of Congress (2001) lo ritroviamo al centro di una procedura di espulsione dall’Accademia di Belle Arti di Firenze: l’accusa che gli viene rivolta è quella di aver compiuto in orario scolastico una performance ritenuta troppo temeraria, come possiamo leggere in un dattiloscritto inviato da un suo compagno di corso al direttore dell’Accademia. In Department of Tate (2018) possiamo leggere un'altra lettera: questa volta è Lulaj a scriverla; il destinatario è Harald Szeemann, a tredici dalla sua scomparsa. Dettaglio significativo: entrambe le epistole sono inserite in raccoglitori originali di istituzioni americane. Sulle copertine di entrambi campeggia lo stemma ufficiale degli Stati Uniti: l’aquila calva che indossa, a mo’ di scudo, la bandiera a stelle e strisce. Due ulteriori dettagli: in Department of Tate la parola State (States) ha perso la s; in Library of Congress, accanto alla lettera, compare una foto un po’ bucolica e un po’ straniante che ci mostra un Lulaj sedicenne sullo sfondo della villa di Monticello, la casa avita (quasi un santuario) di Thomas Jefferson.
Di nuovo gli USA, il potere neo-imperiale con i suoi logori riti di autocelebrazione, lo scarto tra la pretesa di egemonia e il senso di consunzione (psicologica ancor prima che materiale) che costituisce il suo risvolto. Composto da opere di diversi periodi, Torch (2001-2031) è una sorta di polittico della macerazione, un compendio del ruolo che possono avere le bandiere nella costruzione, e più spesso nella distruzione, di un‘identità territoriale, la profanazione di un simbolo basato su di un’idea contraffatta del sacro. Vista in questa prospettiva, la mano che campeggia, con lievi variazioni di inquadratura, nei tre pannelli che fanno parte di Cave Paintings (2022) compie un gesto più catartico che irriverente.
L’epilogo di questo terzo atto di un dramma che ha messo in scena la dissoluzione (anzitutto linguistica) dell’idea di stato, l’ingerenza di un potere sovranazionale in un’anomala comunità territoriale, l’intarsio tra biografia individuale e condizione epocale, è rappresentato da una foto di scena di Recapitulation, uno dei tre film che Lulaj ha presentato alla 56a Biennale di Venezia. Il senso di Levitation che promana dalla carcassa di un aereo da guerra americano sospeso nel vuoto è forse una via d’uscita dalla storia, dai suoi percorsi obbligati, dall’idea che al suo interno non ci sia alcuno spazio di manovra. O forse, al contrario, è una conferma della capacità del potere di alterare a tal punto lo stato delle cose da riuscire a sovrastare, attraverso i suoi simboli, sia il tempo sia lo spazio. Ma può anche darsi che proprio in questa ambiguità, nell’intercapedine aperta da questa oscillazione, si possa vivere una paradossale esperienza di libertà.