Andrea Ventura – We come as friends

Informazioni Evento

Luogo
NONOSTANTE MARRAS
via Cola di Rienzo, 8 , Milano, Italia
Date
Dal al
Vernissage
13/06/2018

ore 19

Artisti
Andrea Ventura
Curatori
Francesca Alfano Miglietti
Uffici stampa
MARIA BONMASSAR
Generi
arte contemporanea, personale
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Negli acrilici su carta di Andrea Ventura fiorisce una natura morta estremamente “viva”, antropomorfizzata: mele con le sopracciglia, pere con i baffi, ananas con gli occhi. Un’allegoria colorata che stride con i titoli delle opere: Mercenari, Nessuno è Innocente, Gruppo di Disertori, Non Fate Prigionieri.

Comunicato stampa

Mercoledì 13 giugno 2018, alle ore 19.00, allo spazio NONOSTANTEMARRAS inaugura la mostra We come as friends, di Andrea Ventura, a cura di Francesca Alfano Miglietti.

In mostra 4 opere di 150x170 cm e alcuni disegni più piccoli (30x40cm) della serie We come as friends. Negli acrilici su carta di Andrea Ventura fiorisce una natura morta estremamente “viva”, antropomorfizzata: mele con le sopracciglia, pere con i baffi, ananas con gli occhi. Un’allegoria colorata che stride con i titoli delle opere: Mercenari, Nessuno è Innocente, Gruppo di Disertori, Non Fate Prigionieri.

Le sue opere sono caratterizzate da un valore simbolico-esistenziale dato dalla mancata immediatezza di lettura, dal non senso che scaturisce dai travestimenti che l’artista adotta per mascherare il messaggio che vuole mandare. La pittura diventa così non un’azione compiuta, ma piuttosto il racconto di uno svolgimento, di una potenza, di un’evoluzione. Estrapolando dal loro contesto abituale gli oggetti della vita quotidiana, Andrea Ventura li investe di nuovi significati, dettati più dalla fantasia e dall’immaginazione che non dall’uso e dalla consuetudine.

La sua pittura è uno sguardo “particolare”, non “universale”, che al tempo stesso lascia ampi margini di interpretazione, riempiendo un vuoto di senso con misteriosi ruoli assegnati ad assemblaggi di oggetti inconsueti.

Andrea Ventura

Andrea Ventura nasce a Milano nel maggio 1968. Ha studiato Storia Moderna all’Università Statale di Milano ma senza conseguire la laurea. Si trasferisce a New York nel 1991 dove inizia a lavorare come illustratore. I suoi disegni sono stati pubblicati dal The New York Times e dal The New Yorker e da molte altre riviste. Da molti anni lavora anche come pittore. Il suo lavoro è stato esposto in gallerie in vari paesi del mondo. Nel 2014 ha pubblicato da Gestalten in Germania una monografia del suo lavoro. Attualmente vive a Berlino.

TESTO DI FRANCESCA ALFANO MIGLIETTI

“(…) Osservate la natura morta olandese: l’oggetto non è mai solo, mai privilegiato: sta lì e basta, in mezzo a tanti altri, colto giusto nell’intervallo fra il momento in cui è stato usato e quello in cui lo sarà nuovamente, fa parte integrante di un disordine provocato dai movimenti di qualcuno, che prima l’ha preso e poi l’ha posato, in una parola: l’ha utilizzato. Ci sono oggetti su ogni superficie, sui tavoli, alle pareti, per terra: vasi, boccali rovesciati, canestri in disordine, ortaggi, cacciagione, scodelle, gusci di ostriche, bicchieri, culle. Questo è lo spazio dell’uomo, che vi si misura e determina la propria umanità a partire dal ricordo dei gesti compiuti; il tempo è scandito dall’uso delle cose, l’unica autorità della vita è quella che l’uomo imprime a ciò che è inerte, modellandolo e manipolandolo.”

Roland Barthes, Saggi critici

Nel 1969 Barthes pubblica, sui ‘Cahiers du cinéma’, uno dei saggi semiologici più importanti: Le troisième sens. Il terzo senso, per Barthes, è un senso misterioso e sfuggente: letto, codificato ma puntualmente in eterna fuga. Questo particolare senso viene definito da Barthes obtus. Esso ha la caratteristica di vivere fuori dal sapere, è il lato del testo ove si confondono il futile e il posticcio: tratti che compongono l’essenza dell’immagine sull’immagine. Il senso obtus avrebbe, dunque, qualcosa che lo associa al travestimento; esso rappresenta la ribellione della parola, una non-definizione, una mancanza. Ma questa non-definizione, questa ‘mancanza’ di senso, possiede un alto valore simbolico-esistenziale.

Il metodo e lo stile con cui Andrea Ventura affronta il pensiero della pittura non sono quelli del pittore che descrive il suo oggetto inserendolo nel proprio contesto perché lo considera compiuto e finito, cioè morto. La prospettiva di Andrea Ventura è piuttosto quella di chi vede nella pittura “non un fatto compiuto ma un atto” (come direbbe Gilles Deleuze), a cui ci si può accostare solo con la pretesa di prolungarne la linea della vita. Le opere che compongono questa serie mostrano un’atmosfera inconsueta: l’affermazione metafisica, l’immanenza, l’univocità del reale, l’uguaglianza di tutte le cose, l’anarchia contro l’immagine. In realtà quella che Andrea Ventura dipinge è un’immagine del pensiero, un pensiero capace di liberarsi da presupposti oggettivi, opinioni, cliché, un pensiero capace di dar vita a un progetto che tende ad affermare il carattere imprevedibile di ciò che accade.

L’idea dell’arte di Andrea Ventura è un pensiero non della potenza, ma dell’atto, non dell’essenza, ma dell’esistenza. Una ricerca dell’immagine perduta, il tempo e la visione si fondono in un delicato tentativo di sfogliare un album di visioni, quella di questa serie di Andrea Ventura sembra una ricerca sulla pittura delle ‘cose basse’, ossia la raffigurazione non dell’universale, ma del particolare, del dettaglio di una pera, della zucca o dell’osso, di una banana e di un pennello da barba. Nel Seicento la natura morta, affermatasi già all’inizio del secolo come genere artistico autonomo nei Paesi Bassi e in Italia, conosce un rapido e originale sviluppo in gran parte d’Europa. Vi si dedicano artisti specializzati, ma anche Caravaggio, Rembrandt, Zurbarán, per fare solo alcuni nomi. E nature morte sono quelle di questa serie di Andrea Ventura, in una visione che sceglie il sottotono e l’evanescenza temporale, ma in un codice espressivo frontale, stranito, alieno… un “punto di vista limitato”, in una narrazione definita in termini cromatici e spaziali.

La realtà è il vuoto e Andrea satura lo spazio e ne costituisce le interazioni sceniche dipingendo l’attimo gelido e disarmante di un insieme di oggetti quasi animati, come a volerne decidere un destino, un insieme di forzate aggregazioni in cui gli oggetti assumono un misterioso ruolo e dove le dimensioni di durata e istantaneità vengono a coincidere nel confine di una narrazione domestica e contemporaneamente estranea. Già nella pittura metafisica si era iniziato a separare l’oggetto dal suo significato comune e a investirlo di una valenza simbolica, coinvolto in un progetto estraneo alla propria natura, e così anche gli oggetti dipinti da Andrea, accompagnati da scritte a mò di appunto o forse anche di titoli

(Mercenari, Nessuno è innocente, Gruppo di disertori, Non fate prigionieri) sembrano presentare l’eclisse stessa degli oggetti, in un silenzio ingombrante di storie costruite intorno al vuoto di inquadrature dirette che colgono sospensioni di immagini in quei punti di vista insoliti che sfuggono alla “storia”. Nei ‘Pensieri’ di Blaise Pascal si legge: “Quelle volte in cui mi sono messo a considerare le diverse forme d'inquietudine degli uomini, i pericoli e i dolori a cui si espongono, a corte, in guerra, e da cui sorgono tante liti, passioni, imprese audaci e spesso malvagie, mi sono detto che tutta l'infelicità degli uomini viene da una sola cosa, non sapersene stare in pace in una camera.”, e si ha l’impressione che forse il segreto degli artisti è proprio questo, la capacità di sapere stare in pace in una stanza.