Amira Fritz

Informazioni Evento

Luogo
GALLERIA FOTO-FORUM
Via Weggenstein 2/1, Bolzano, Italia
Date
Dal al

Dienstag - Freitag/martedì - venerdì: ore 15 - 19 Uhr
Samstag/sabato: ore 10 - 12 Uhr

Vernissage
06/09/2016

ore 19

Artisti
Amira Fritz
Generi
fotografia, personale
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Amira Fritz è una sognatrice di immagini, atmosfere sospese, paesaggi armoniosi, fiori delicati, volti e persone che scrutano lo spettatore come se emergessero da un altrove irraggiungibile e fatato.

Comunicato stampa

Guardare a bassa voce

Qualcuno, come il filosofo Gaston Bachelard, si è definito “un sognatore di parole, un sognatore di parole scritte”. Amira Fritz è invece una sognatrice di immagini, atmosfere sospese, paesaggi armoniosi, fiori delicati, volti e persone che scrutano lo spettatore come se emergessero da un altrove irraggiungibile e fatato. Le sue fotografie (così come le parole di Bachelard) abbandonano il carico pesante che le lega al tempo e alla realtà, per aprirsi al sogno, alle emozioni, a una geografia poetica dove il viaggio è un saper incontrare senza svelare. Lei ha compiuto un lungo percorso da Shanghai a Parigi. Ha attraversato le Mongolia, raggiunto le sponde del lago Baikal, la Turchia e poi la Romania, l’Ungheria, la Germania, la Francia. Forse ha viaggiato prevalentemente in aereo, oppure ha preferito spostarsi solo in macchina, in autobus e talvolta a piedi. Ma non importa. Ciò che conta è che ha saputo fermarsi e sostare in silenzio davanti a boschi di pini avvolti da nuvole nebbiose, a paesaggi stepposi oppressi dalla calura, a sguardi severi e concentrati, a nere pareti laviche simili a muri invalicabili, a umili piantine spolverate di fiori minuscoli… Solo così, nella lunga attesa di una voce, di un sussurro, ha potuto riallacciare i sottili legami che uniscono lo sguardo e la memoria, la custodia del mondo e il silenzio che attornia le cose. Abbandonata l’idea ingenua secondo la quale il visibile è solo la realtà immediata, le sue opere sanno preservare il mistero dello sguardo e con esso quello delle cose. Sanno che solo grazie a una lentezza contemplativa lo sguardo può lasciarsi implicare, avvicinarsi all’orlo dell’invisibile.

Nato per raccontare gli abiti minimalisti della stilista cinese Lin Li (marchio JNBY) il viaggio di Amira Fritz si è così trasformato in un racconto interiore composto da immagini delicate, dove la realtà non appare più nel suo oscuro e prosaico spessore, per aprirsi invece a una dimensione nascosta, evocativa e, proprio per questo, più aperta, più lieve, intrisa di un’altra possibile luce. Una dimensione in penombra, sospesa in un tempo oscillante, interstiziale, che scivola verso un passato dove il mondo conservava il suo incanto e la sua magia, dove possono riemergere memorie di immagini antiche, quasi sacre. Questa autrice guarda infatti il mondo sovrapponendo percezione e rievocazione. Ricordi di immagini, di antiche pitture, di suggestioni che lei ritrasforma in altre immagini intinte di echi, di rimandi sussurrati. Le sue fotografie soffuse, azzurrine, attutite, sembrano indicare che lei osserva il mondo dietro al velo impalpabile delle rammemorazione e delle emozioni. Guardandole ci si immagina che lei, anziché osservare il mondo direttamente, abbia preferito per discrezione osservarlo attraverso quei vetri colorati che amava usare il pittore Claude Lorrain per donare ai suoi paesaggi un tono morbido e avvolgente. Il suo vedere è infatti più un custodire che non un osservare. È un intravedere, un esitare, nel nome della cura, dell’accoglienza, fino a creare immagini prive di stridori, sgravate di ogni pesantezza, dove ogni cosa – abiti, persone, paesaggi – coesistono e si relazionano reciprocamente in un’atmosfera sospesa.

Nella nostra realtà prosaica, dominata da immagini urlate e piattamente informative, lei crea visioni che mormorano, che s’impongono con la loro reticenza, con la loro magia sospesa e delicata. Il suo è un guardare senza pretese, senza arroganza, solo con grazia. Abituati come siamo a venire confermati nei nostri preconcetti dalla sicura certezza di immagini presuntuose, rimaniamo turbati dalle opere di Amira Fritz, le quali invece ci toccano, anzi ci sfiorano con loro vaghezza, la loro capacità di suggerire senza dire, di preservare un alcunché di misterioso, di inafferrabile. Lo spettatore viene così invitato a entrare nello spazio incantato delle sue immagini, per essere delicatamente intrattenuto nell’aura di una temporalità imbevuta di memorie, di sogni a occhi aperti. Si tratta di un incanto, certo, ma da cogliere come una forma di resistenza per non ridurre il mondo alla mera, immediata evidenza dei fatti e delle cose. Non quindi di un incanto artificioso e artefatto, per imporci visioni manierate e falsamente poetiche. Incanto è quella capacità – propria di alcune fotografie visionarie ma senza enfasi – di mostrarci le cose diversamente da come le vediamo o le pensiamo abitualmente, per rivelarci un’inattesa profondità, una misteriosa complessità, celata nell’apparente semplicità delle apparenze, delle superfici. Non è il mondo, non sono i luoghi visitati da Amira Fritz, a essere di per sé posti incantati: sono invece le sue immagini vaghe e sospese a creare uno spazio di fascinazione. È l’immagine intrisa d’incanto a sedurre lo sguardo con cui seguiamo il suo viaggio senza confini.

Gigliola Foschi

Betrachten mit leiser Stimme

Irgendjemand hat sich einmal als "ein Träumer von Worten, ein Träumer geschriebener Worte", bezeichnet, so wie es der Philosoph Gaston Bachelard getan hat. Amira Fritz hingegen ist eine Träumerin von Bildern, schwebenden Stimmungen, harmonischen Landschaften und zarten Blüten sowie von Gesichtern und Menschen, die den Betrachter aus einem unerreichbaren und verzauberten Anderswo mustern. Ihre Fotografien lassen (ebenso wie die Worte Bachelards) die schwere Last hinter sich, die sie an die Zeit und die Realität bindet und öffnen sich dem Traum, den Emotionen und einer poetischen Geographie, in der Reisen die Fähigkeit ist, auf etwas treffen zu können ohne es zu enthüllen. Amira Fritz hat einen langen Weg von Shanghai bis nach Paris zurückgelegt. Sie hat die Mongolei durchquert, hat die Ufer des Baikalsees erreicht und dann die Türkei, Rumänien, Ungarn, Deutschland und Frankreich bereist. Ob sie mit dem Flugzeug gereist ist oder sich mit dem Auto, mit Bussen oder zu Fuß fortbewegt hat, ist dabei nicht von Bedeutung. Was zählt, ist, dass sie anzuhalten und in Ruhe vor in Nebelwolken gehüllten Kiefernwäldern, hitzeflirrenden Steppenlandschaften, strengen und konzentrierten Blicken, unüberwindbaren schwarzen Mauern gleichenden Lavawänden und mit winzigen Blüten übersäten Pflanzen zu verharren wusste. Nur so, durch langes Warten auf eine leise Stimme, konnte sie die feinen Bänder, die stille Schutzhülle der Welt, welche die Dinge umgibt und den Blick und das Erinnerungsvermögen verbindet, verknüpfen. Sie hat die naive Vorstellung, dass das Sichtbare die unmittelbare Realität ist, hinter sich gelassen. Ihre Werke bewahren somit die Geheimnisse des Blicks, der sich nur dem Rand des Unsichtbaren nähern kann, indem er sich durch eine kontemplative Langsamkeit hineinziehen lässt.

Amira Fritz' Reise, deren eigentliches Ziel es war, die minimalistischen Kleider der chinesischen Stylistin Lin Li (JNBY) fotografisch zu erzählen, wurde so zu einer inneren Erzählung, bestehend aus zarten Bildern, auf denen die Realität nicht mehr in ihrer dunklen, nüchternen Schwere erscheint, sondern sich vielmehr einer verborgenen, beschwörenden und leichteren, von neuem Licht durchdrungenen Dimension öffnet. Einer Halbschattendimension, die schwebend in einer pendelnden Zwischenzeit in eine Vergangenheit abgleitet, in der die Welt noch ihren Zauber und ihre Magie bewahrt und Gedanken an antike nahezu heilige Bilder entstehen können. Die Fotografin blickt auf die Welt, indem sie die Wahrnehmung mit dem Wachrufen von Geschehenem überlagert und damit in Echos und geflüsterte Anspielungen getunkte Bilder entstehen lässt. Ihre in gedämpftes Licht getauchten, bläulichen Fotografien scheinen einen Hinweis darauf zu geben, dass sie ihre Umgebung nicht direkt, sondern diskret hinter einem unberührbaren Schleier von Erinnerungen und Emotionen sieht. Beim Betrachten ihrer Fotografien hat man die Vorstellung, dass sie die Welt durch die bunten Glasscheiben, die der Maler Claude Lorrain gerne benutzte, um seinen Landschaften einen weichen und anheimelnden Ton zu verleihen, wahrnimmt. Ihr Sehen ist in der Tat mehr ein Bewahren als ein Beobachten. Es ist ein Erahnen, ein Zögern im Zeichen der Achtsamkeit, ein Empfangen von Bildern, die frei sind von schrillen Tönen und von jeder Schwere entlastet sind.

In unserer nüchternen, von lauten Bildern mit oberflächlichen Informationen geprägten Realität schafft sie flüsternde Visionen, die uns durch ihre Zurückhaltung, ihre schwebende, zarte Magie, beeindrucken. Ihr Blick ist nicht fordernd oder arrogant, er ist einzig und allein anmutig. Daran gewöhnt, durch die sichere Gewissheit großspuriger Bilder in unseren Vorurteilen bestätigt zu werden, lösen die Werke von Amira Fritz bei uns Verwirrung aus. Ihre Werke berühren uns, sie bewegen uns durch ihre bestimmte Unbestimmtheit, der Fähigkeit ohne Worte etwas zu suggerieren und dabei etwas Geheimnisvolles nicht Greifbares zu bewahren. Der Betrachter wird so eingeladen, in den verwunschenen Raum ihrer Bilder einzutreten und behutsam in einer Aura von Erinnerungen und Tagträumen durchdrungener Zeitlichkeit zu verweilen. Gewiss, es handelt sich um einen Zauber, allerdings um einen Zauber, der als eine Form des Widerstands, die Welt nicht auf die reine unmittelbare Offensichtlichkeit der Tatsachen und Dinge zu reduzieren, verstanden werden muss. Es ist also keine künstliche und aufgesetzte Magie, die uns affektierte und vermeintlich poetische Visionen aufdrängen soll, sondern jene Fähigkeit - die einige visionäre, aber nicht emphatische Fotografien inne haben - uns die Dinge anders zu zeigen als wir sie üblicherweise sehen oder denken. Sie verfolgt das Ziel, uns eine unerwartete Tiefe und geheimnisvolle Komplexität zu offenbaren, die sich hinter der scheinbaren Einfachheit der äußeren Erscheinung, der Oberfläche verbirgt. Nicht die Welt und die von Amira Fritz bereisten Orte an sich sind geheimnisvoll: Vielmehr sind es ihre unbestimmten, schwebenden Bilder, die einen Raum der Faszination schaffen. Es ist das vom Zauber durchdrungene Bild, das unseren Blick verführt und uns ihre Reise ohne Grenzen verfolgen lässt.

Gigliola Foschi

Observe with a Soft Voice

Philosopher Gaston Bachelard once called himself a „dreamer of words, a dreamer of written words.“ Amira Fritz, on the contrary, is a dreamer of images, floating atmospheres, harmonic landscapes, gentle flowers, faces and people who investigate the observer as if they emerged from an unreachable, enchanted otherworld. Her photographs (just like Bachelard’s words) detach themselves from the heavy burden that binds them to time and reality and instead open up to the dream, to emotions, to a poetic geography where travelling is the ability of encountering without revealing. Amira Fritz has gone a long way - from Shanghai to Paris. She crossed Mongolia, reached the shores of Lake Baikal, Turkey and then Romania, Hungary, Germany and France. Whether she traveled mainly by plane or maybe she preferred moving around by car, bus or sometimes on foot is of no importance here. What counts is that she knew how to pause and rest silently in front of pine forests wrapped in foggy clouds, steppe landscapes shimmering in the heat, austere and focused gazes, black murals of lava resembling insurmountable walls, humble little plants covered in tiny little flowers... Only like this, waiting a long time for a voice, a whisper, could she reconnect the delicate links that unite the gaze and the memory, the protective case of the world and the silence that surrounds things. Leaving behind the naive idea of the visible as immediate reality, her works know how to preserve the mistery of the gaze and thereby of the things themselves. They know that the gaze can be drawn in, can approach the edge of the invisible only through contemplative slowness.

Amira Fritz‘s journey, originally intended to narrate the minimalist clothes of Chinese designer Lin Li (NYBY) through the means of photography, thereby became an inner story composed of delicate images where reality does no longer figure in its dark, prosaic weight, but rather opens up to a hidden, conjuring dimension that – precisely for this reason – is more open, lighter, and permeated by different possible shades of light. A dimension in half-light, floating in a fluctuating interstitial time that delves into a past where the world has preserverd its spell and its magic, where memories of ancient, almost sacred images can re-emerge. The photographer looks at the world by overlapping perception with memories. Memories of images, ancient paintings, suggestions, that she retransforms into new images traversed by echoes and whispered references. Her suffused, light blue, soft photographs, immersed in a diffuse, dim light, suggest that she looks at the world behind an untouchable veil of remembrances and emotions. Looking at the images, one gets the idea that she does not immediately observe the world, but rather delicately views it through that coloured glass which painter Claude Lorrain liked to use to endow his landscapes with a soft and homely tone. Her seeing is, indeed, more an act of preservation than one of observation. It is a mere glimpse, a hesitation on behalf of caution, of welcoming, until images emerge, devoid of shrill tones, freed of all the weight, where everything – garments, persons, landscapes – coexists and relates to one another in a floating atmosphere.

In our sober reality, which is dominated by noisy imagery containing superficial information, she creates whispering visions that impress us through their hesitance, their pending, fragile magic. Her way of seeing is not demanding or arrogant – it is nothing but graceful. As we are used to having our prejudices confirmed by the safe certainty of loud-mouthed imagery, the works of Amira Fritz leave us feeling unsettled. Her works touch us, they move us with their vagueness, their ability to suggest without words, to retain something mysterious and elusive. Observers are thereby invited to enter the enchanted space of her images, capitivated by the aura of a temporality steeped in memories and daydreaming. Doubtlessly, this is a kind of spell — but a spell that must be viewed as an act of resistance against reducing the world to the mere, immediate obviousness of facts and things. This is not an artificial and contrived magic that imposes allegedly poetic visions upon us, full of mannerisms. This magic is the ability of some visionary, though not emphatic photographers, to show us the things differently than we usually see and think of them, in order to reveal an unexpected depth, a mysterious complexity, that hides behind the apparent simplicity of outward appearance. The world and the places traveled by Amira Fritz are not mysterious in themselves: rather, it is her vague, floating images that create a space of fascination. It is the image imbued with magic that seduces our gaze and makes us follow her journey without boundaries.

Gigliola Foschi