Spazio Morris, una pazzia che funziona

Compie due anni una delle più interessanti schegge impazzite del sistema milanese dell’arte. Una galleria che non è una galleria, perché rifiuta ogni implicazione commerciale. Rendendosi isola felice per le idee.

Chiamate un’ambulanza, questi sono pazzi. Nel senso più irrimediabile, clinico e drammatico del termine; sono fuori di testa, matti senza possibilità di recupero. Partiti per la tangente, andati, senza la minima opportunità di ritorno. Questi in realtà sono quelli: quelli che da due anni a questa parte animano lo Spazio Morris. Scheggia impazzita nel sistema milanese dell’arte, dinamica che sfugge a ogni possibile logica di scambio, dal commercio puro al più semplice do ut des. Morris non ha ragione di esistere per quelli che sono i modi tradizionali di intendere l’arte contemporanea; Morris non ha senso. E infatti funziona. Eccome.
Milano ha queste zone che non sembrano Milano, dove girare un angolo equivale a schiacciare il tasto mute sullo stereo. Tutto si ovatta all’improvviso, come affogato in una nevicata perenne, di quelle che zittiscono persino il battere dei passi sul marciapiedi. Una di queste zone sa di essere tale, riconosce il suo potere: tant’è che s’è fatta ribattezzare Quadrilatero del Silenzio, sprezzante nella sua sussiegosa distanza da un altro poligono, quello della moda, a un tiro di schioppo dall’oasi dove nei giardini tengono i fenicotteri. Un altro piccolo paradiso, inconsapevole, sta a ridosso di viale Beatrice d’Este: via Anelli è a metà strada tra Porta Romana e il caos dei Navigli, poche decine di metri da un traffico furibondo. Zona placidamente borghese, tanto in centro da rendere assurda l’assenza di un bar, una vetrina, qualunque cosa che dopo le sei di sera testimoni forme di vita.

Alessandra Pedrotti Catoni Spazio Morris, una pazzia che funziona

Alessandra Pedrotti Catoni

Morris sta al civico 8, piano rialzato di uno stabile fine Anni Cinquanta: ci entri da un minuscolo e coraggioso giardinetto che si affaccia su via Crivelli. Un appartamento vuoto, sfitto da almeno vent’anni, abbandonato come per una fuga precipitosa: carta da parati strappata, l’alone di vecchi mobili tatuato sui muri; gli adesivi ormai scollati sulla porta della camera dei ragazzi, tra pubblicità della Levi’s e i disgustosi mostriciattoli putrescenti di Sgorbions.
Morris è una casa sola, lasciata andare, impigrita. Se l’è trovata per le mani Alessandra Pedrotti Catoni: avrebbe potuto buttarla in moneta, convincere la famiglia a cercare nuovi inquilini. E invece ha inventato Morris. Spazio Morris. Un luogo che accosti all’idea della home gallery, ma che in realtà sottintende qualcosa di più profondo. Di gallery c’è proprio poco: è semmai sul concetto di home che si batte il chiodo. Decine, in appena un paio di anni, gli artisti chiamati a vivere lo spazio, costruendo site specific che prevedono l’osmosi completa con l’ambiente: David Casini ha traslato qui il suo studio per un paio di mesi; operazione simile a quella di Jared Deery, ultimo ospite di un luogo che è vetrina pura, occasione di creatività senza margine di profitto.

Video @ Spazio Morris Spazio Morris, una pazzia che funziona

Un video allo Spazio Morris di Milano

Morris non vende, non pretende commissioni sulle vendite degli artisti; Morris non è in affitto per progetti altri. Morris invita, condivide, vive. Nel nome di quel William Morris, pioniere del design, che nella Londra della Signora Dalloway animava i bei salotti della cultura. Tutto qui, insomma. Mecenatismo 2.0, brillante nella sua efficace semplicità: già arrivata Oltreoceano per la partnership con Soloway, artist run space con cui scambiarsi mostre, idee, progetti. Che ci guadagna Morris da tutto questo? Nulla in senso prettamente finanziario. In realtà tanto, tantissimo. Ed è qui la sua follia, il suo rifiuto non anarcoide ai canali tradizionali dell’arte. Spazio Morris è un piccolo piacevole manicomio. Che funziona alla grande.

Francesco Sala

www.spaziomorris.com

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Francesco Sala

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