Passeggiata tra i murales di Brooklyn con lo street artist Iena Cruz

Facendoci guidare dallo street artist di origini milanesi e di base a New York, Iena Cruz, abbiamo fatto una passeggiata per le strade di Brooklyn alla ricerca dei muri più belli. Ve li proponiamo per ora come tour virtuale, ma da tenere a portata di mano la prossima volta che sarete nella Grande Mela, perché l’arte, soprattutto quella di strada, va vista dal vivo. Nelle prossime settimane vi proporremo altre passeggiate per le strade della città in compagnia degli artisti.

Spike Lee l’ha ribattezzata “Da Republic of Brooklyn”. Diventata ufficialmente città nel 1816, Brooklyn fu annessa a New York City solo nel 1898. Non sorprende quindi che il più popoloso borough della Grande Mela abbia sempre avuto una sua cultura e contro-cultura. Ai tempi della prima colonizzazione europea, da questa parte dell’East River c’era una costellazione di piccoli villaggi, tra cui Williamsburg e Bushwick, più tardi diventati i quartieri manifatturieri e operai di North Brooklyn e oggi zone in cui la cultura underground portata dagli artisti che per primi cominciarono a ripopolare queste aree convive con locali e negozi hipster.
In questa zona vive, da quando dieci anni fa si è trasferito a New York da Milano, lo street artist Federico Massa, in arte Iena Cruz. Negli ultimi anni l’artista milanese si è fatto conoscere negli Stati Uniti, in Italia e nel mondo per murales di grande formato che spesso ritraggono animali e oceani. Di recente ha firmato a Roma il murale più grande d’Europa mai realizzato con vernice mangia-smog.
A lui abbiamo chiesto di accompagnarci in questa prima passeggiata virtuale tra i luoghi simbolo della Street Art newyorchese. Ce ne saranno altre che ci porteranno in altre zone di New York, alla scoperta di una lunga storia fatta di libertà e creatività. Intanto oggi Federico Massa ha scelto di partire proprio dalle strade in cui vive e lavora da anni e di cui conosce ogni angolo e muro. La passeggiata che l’artista ci propone inizia dalla fermata Jefferson della linea metropolitana L. Siamo nel cuore di Bushwick e a poche minuti in subway da Manhattan. “Da qui ci muoveremo a piedi, ma è un bellissimo giro anche da fare in bicicletta”, ci garantisce Iena Cruz.

Come mai hai deciso di portarci in questa zona di Brooklyn?
Beh, intanto perché vale sempre la pena fare un giro a Brooklyn. Molto spesso chi viene a New York non considera questo borough se non per le aree più conosciute, con negozi e ristoranti, le zone cool che ti segnalano anche le guide. Però Brooklyn ha molto altro e offre un paesaggio molto diverso da quello di Manhattan. Per la Street Art la zona iconica è diventata quella di Jefferson, tappa obbligata per gli amanti di questo tipo di arte. Qui c’è un’alta densità di murales e in una botta sola puoi vederne davvero tanti.

C’è qualcosa che caratterizza la Street Art di questa zona in modo particolare?
La caratteristica è il paesaggio, siamo nella zona industriale di Brooklyn e, mentre a Manhattan c’è la bellezza della città, qui c’è il fascino del panorama industriale, più grezzo, ma che mi ispira molto. Non per niente ho sempre vissuto da queste parti, invece che a Manhattan. E continuo regolarmente a fare lunghe passeggiate o biciclettate tra queste strade per vedere cosa c’è di nuovo sui muri.

Quando sei arrivato a New York facevi già Street Art? Conoscevi già la scena della città?
Ho iniziato nel ‘97 e seguivo molto la scena internazionale, non solo quella italiana con cui sono cresciuto. In principio quello che mi attirava era la cultura underground dello skate, quindi all’inizio ero più attratto dalla California. Però quello che la California non ha è quell’energia della città. Il fascino della California è più legato a grandi spazi, al sole e alla natura. Ma io sono sempre stato ispirato dalla città e dall’ambiente urbano. Il movimento dei graffiti parte da New York che ne è un po’ la culla, quindi sì, conoscevo e seguivo quello che succedeva qui. Quando Milano ha iniziato a starmi stretta cercavo una città di un’altra dimensione e grandezza e così ho deciso di andare a perlustrare New York. Dopo i primi tre mesi qui, avevo fatto un viaggio a Londra che pure mi era piaciuta molto, ma l’energia che avevo percepito a New York era qualcosa di speciale.

C’erano degli artisti in particolare che amavi e seguivi e che ti hanno influenzato?
Non in particolare. C’erano i real bombers che fanno graffiti per la purezza del graffito. Non direi che mi hanno ispirato, ma la scena del graffito ha sempre un’attrazione: è da dove sono partito, sono le fondamenta. Alcuni artisti che mi hanno ispirato sono più sulla West Coast, ma poi, piano piano, ho conosciuto anche qui artisti che oggi stimo e seguo. Una cosa bella di New York è anche che qui puoi incontrare e conoscere di persona gli artisti e spesso scopri che anche quelli più famosi sono molto disponibili e alla mano. Per esempio ho conosciuto Mr. Brainwash, il copycat di Banksy. Credo fosse il primo anno in cui vivevo in città: entro in una galleria a Chelsea, c’era un pop-up show, e mi vedo un taxi all’interno di una scatola, come se fosse una macchinina giocattolo. Dentro poi c’era una bomboletta spray e quadri che ricordavano Banksy. Non conoscevo l’artista e così, parlando con la curatrice, ho chiesto chi fosse e lei me lo ha presentato. Era Mr. Brainwash, che al tempo non era ancora molto famoso. Abbiamo parlato in francese, che al tempo sapevo e che ora ho completamente dimenticato [ride, N.d.R.], e ci siamo scambiati i biglietti da visita. Una settimana dopo, vado al cinema a vedere Exit Through the Gift Shop, il film su Banksy, e mi vedo lui, che avevo conosciuto qualche giorno prima. Un’altra volta, aspettavo la metropolitana per andare dal Lower East Side a Brooklyn e vedo WK Interactive, un artista che seguivo già dall’Italia e che mi piaceva tantissimo. Gli ho chiesto se fosse realmente lui e ci siamo messi a parlare, abbiamo preso la metro insieme. Ci siamo fatti una bella e stimolante conversazione: io ho saltato la mia fermata di quattro stop per parlare con lui. È stato gentilissimo e molto umile. New York è così: ti trovi a relazionarti con delle persone che sono dei colossi ma magari si prendono tutto il tempo di parlarti.

AKA CRUZ from Armando Croda on Vimeo.

Allora iniziamo a camminare. Dove ci porti?
Partiamo dal Bushwick Collective che è nato negli anni in cui in tutta Brooklyn esplodeva l’arte del murale di grosso formato. Io sono arrivato a New York a cavallo di questa esplosione. Graffiti e murales ci sono sempre stati e prima c’erano i 5 Pointz nel Queens che sono stati un simbolo. Prima che venissero demoliti, ci avevo dipinto anche io con degli amici, facemmo un lettering, fu una giornata divertente e per noi fu come dipingere su un pezzo di storia. Poi venne il Bushwick Collective e questa diventò la zona più calda per questo tipo di arte.

Come è nato il collettivo?
È stato fondato da Joe Ficalora, un italo-americano che aveva sempre vissuto nel quartiere, con l’intenzione di riqualificare la zona che allora era ancora un po’ abbandonata a se stessa, era una zona ex industriale, senza niente, né locali, né ristoranti. La nuova vita del quartiere è iniziata grazie alla mural art.

Quali sono i pezzi di questa zona che ti piacciono particolarmente?
Qui i murales sono ciclici. Gli artisti li fanno sapendo che restano per circa quattro mesi. La bellezza è anche quella: ogni volta che vieni puoi trovare cose nuove. Però ce ne sono un paio che hanno già qualche anno e sono ancora lì. Uno che mi piace tantissimo è quello di D*Face, un artista londinese della scena iniziale della Street Art, dei tempi di Obey. Fu invitato a dipingere un muro molto grande per il festival annuale del Collective e il muro è ancora lì: è uno di quelli che mi vado a rivedere ogni volta che arrivo a Jefferson [Til Death Do Us Part, 2016 – Angolo Troutman Street e Wyckoff Avenue, N.d.R.]. Dietro l’angolo c’è anche un pezzo molto bello di Case Maclaim [Holding Hands, 2016 – Angolo Troutman Street e Wyckoff Avenue, N.d.R.]. E sullo stesso edificio c’è anche un muro di Ron English che ha fatto un puppet con la facciona di Donald Trump che tra l’altro è stato seguito da una bombardata di vernice in faccia, come a dire: chi se lo vuole vedere questo faccione qua tutti i giorni a Brooklyn? [Trumpty Dumpty, 2016 – Angolo Troutman Street e Wyckoff Avenue, N.d.R.]. In questa zona sono passati davvero tanti artisti internazionali e non tutti sono rimasti. Molti sono stati e sono tuttora anche i locals. È la zona più facile, dove già scendendo dalla metropolitana inizi a vedere una gran quantità di muri belli, tutti concentrati tra Wyckoff, Troutman, Starr e le altre vie intorno.

Prossima tappa?
Qui se uno ha parecchio tempo a disposizione, si può fare una deviazione più a sud, verso le linee della metropolitana J, M e Z. Vicino alla fermata Halsey c’è un collettivo che ha creato il JMZ walls, un grosso muro su cui appaiono a rotazione vari artisti. In questa zona, tra Myrtle Avenue e Evergreen Street, c’era anche un mio lavoro, The squid and the Whale. Prendeva l’intera palazzina. Era un periodo in cui cercavo muri in questa zona e, parlandone con il mio amico Flaco che è un poeta e al tempo faceva anche il tassista per arrotondare, mi disse che suo zio aveva un’officina con di fianco un edificio con un muro molto bello. Presentammo il progetto allo zio che disse di sì, ma probabilmente pensava che avrei dipinto giusto un angolino, non tutto il muro. Quella fu una bella avventura. Ricordo che avevamo bisogno di una scala molto alta e andammo ad affittarla ma nessuno dei due aveva il portafoglio dietro, così lasciammo in pegno il cellulare del Flaco [ride, N.d.R.]. Poi chiesi a Flaco di scrivere dei versi ispirati al mio lavoro e lui scrisse questa cosa che era perfetta con il mio disegno. Diceva: corrientes furiosas que acaricia y que destroza, correnti furiose che accarezzano e distruggono. E la scritta accompagnava il mio disegno in cui c’era questo polipo che sembra stia accarezzando la balena ma che è pronto a risucchiarsela. Quello è un muro che mi dispiace molto non ci sia più.

Cosa è successo? Perché non c’è più?
Hanno abbattuto la casa. Era abbandonata già quando ci avevo dipinto io, ed era rimasta lì per tanti anni, ma poi l’hanno buttata giù. È stato un peccato perché aveva davvero dato un senso di riqualificazione alla zona, quello era un angolo orribile e il mio disegno dava gioia a chi ci camminava.

JMZ Walls, 180 Union Avenue, New York. Photo courtesy www.jmzwalls.com

JMZ Walls, 180 Union Avenue, New York. Photo courtesy www.jmzwalls.com

Ce ne sono altri che ti dispiace particolarmente siano scomparsi?
Sì, uno che è stato un brutto colpo era su Bedford avenue, a Williamsburg, nella zona in cui concluderemo la passeggiata. Quella è la fermata della metro più trafficata di Williamsburg e avere la possibilità di dipingere su quel muro non è cosa che succede sempre. Infatti il mio disegno è stato fotografato tantissime volte. Era una commissione: il cliente mi aveva chiesto una cosa specifica e io feci una mix tra quello che mi avevano chiesto e una cosa mia, fondendo tutto insieme in modo che sembrasse un intero muro. Il muro si svolgeva in orizzontale, c’era uno sfondo che legava il pezzo artistico alla parte connessa al brand. Tra l’altro era la prima volta nella storia di quel muro che veniva dipinto per intero. Paradossalmente, proprio la parte richiesta dal brand è stata la prima a saltare mentre il mio orso polare è rimasto lì per un anno, vicino alle scale di ingresso alla metropolitana. Dipingerlo era stato difficile e stressante, perché avevo dovuto mettere un’impalcatura sull’ingresso della metro e quando la stazione era affollata all’ora di punta c’era gente ovunque che ignorava le delimitazioni che avevamo messo. È stato cancellato per fare una scritta del nuovo juice bar che hanno aperto in quell’angolo, una roba un po’ inutile. Mi è dispiaciuto parecchio.

Quanti ne hai fatti in tutto a New York?
Una ventina, credo.

Di cui ne esistono ancora?
Non troppi, purtroppo. In strada mi sembra ne siano rimasti cinque e poi altrettanti su tetti e building privati che non sono visibili se non da chi abita nel palazzo. Sono lavori fatti su commissione ma con il mio stile. Ogni tanto mi capita che qualcuno mi mandi una foto di un mio lavoro scovato in qualche palazzo.

Proseguiamo con la nostra passeggiata?
Sì, dalla fermata di Halsey puoi prendere direttamente la metro e andare a Williamsburg, oppure risalire a piedi verso nord e tornare lungo la linea della L dove ci sono altre zone dense di graffiti.

Facciamo così allora.
Da qui bisogna camminare un po’. Attraverseremo una grossa zona industriale di Brooklyn, seguendo la linea della L, verso la stazione di Morgan Avenue. Questa è un’altra zona che, fin da quando sono arrivato a Brooklyn, ha sempre avuto un grande wall of fame, molto legato al lettering. Qui c’era un bel pezzo dell’artista austriaco Nychos che era una sorta di vivisezione di animali. Anche il torinese Pixel Pancho aveva dipinto qui. Però questi non ci sono più. Ora da queste parti spuntano sempre più spazi dedicati a Colossal Media, che è un grosso gruppo che ha affittato molti muri per fare la sua pubblicità. Da quel punto di vista la scena è cambiata molto. Ora qua bisogna camminare un po’ su Morgan fino a Meserole e vedere quali sono le novità, perché cambiano di continuo. Poi se vuoi fare una pausa ti prendi una pizza da Roberta’s che ci sta sempre bene.

Iena Cruz, Marshmallow Man 3D, New York, 2017. L’opera è stata coperta da una cabina di metallo, ma è ancora parzialmente visibile. Photo courtesy of the artist

Iena Cruz, Marshmallow Man 3D, New York, 2017. L’opera è stata coperta da una cabina di metallo, ma è ancora parzialmente visibile. Photo courtesy of the artist

Ok, pausa per rifocillarci. Poi dove andiamo?
Da qui continuiamo a camminare lungo la linea L per arrivare nella zona di Montrose, dove su Waterbury, Scholes e Meserole ci sono diversi altri muri. Da queste parti c’era anche un altro mio lavoro che mi è dispiaciuto tantissimo sia stato rovinato, era il Marshmallow Man 3D [quello dei Ghostbusters, tra Waterbury e Scholes, N.d.R.]. Quello era un pezzo che avevo fatto di mia iniziativa, finanziando io i materiali. Era dipinto in modo che, con gli occhialini 3D, lo vedevi in profondità. Prima era stato bombardato da un graffitaro e l’avevo rimesso a posto. Ma poi i proprietari del palazzo hanno messo sul muro un’enorme cabina di metallo che copre il mio pezzo. È stato un brutto colpo perché il disegno aveva avuto molto riconoscimento ed era stato molto, molto complicato da fare. Aveva abbellito e riqualificato la zona, ma i proprietari mi hanno fatto uno sfregio.

Ci sono altre tue cose qui intorno?
Come tanti altri artisti, ho fatto delle cose al The Well [all’angolo tra Montrose e Waterbury, N.d.R.], un palazzo che era un vecchio birrificio e oggi ospita studi di artisti e musicisti e ha tutti i muri interni ed esterni dipinti. Qui ci sono ancora dei miei murales insieme a quelli di tanti grossi nomi. Tra gli altri ci sono DON RIMX, un artista portoricano di base a Brooklyn, dove ha fatto tanti lavori, gli amici NM Salgare e Chuck Berret, poi Yok & Sheryo e anche Never Satisfied, che ho avuto il piacere di conoscere quando abbiamo fatto insieme una mostra che si svolgeva all’interno di una vecchia stazione di polizia in disuso. Lui mi piace molto, mischia il figurativo con il lettering e qui a New York ha fatto e continua a fare un sacco di cose anche se sta viaggiando il mondo. Questa è una zona piccolina ma molto bella, che esce un po’ dal mass media del Bushwick Collective di Jefferson; meno conosciuta ma con una sua bella autenticità. Qui c’è da passeggiare tra le strade e fermarsi nel localino che fa i falafel o ad Anchored Inn, dove una volta si facevano concerti metal e che oggi ha, secondo me, il miglior burger della zona. È una piccola dimensione brooklyniana, con quattro strade piene di graffiti e murales. È una chicchetta. Stiamo passando nelle zone in cui ho iniziato.

Qual è stato il tuo primo muro a New York?
Il primo è stato l’esterno della Graphite Gallery dove ho fatto la mia prima mostra in città e che ora non c’è più. Mi offrii di dipingere anche il muro esterno. Il mio personaggio, da cui viene anche il mio nome d’arte, era una iena ridens, stilizzata a cartoon. Io poi la declinavo in forma di diversi animali. In quel caso feci un bruco-iena che usciva dal muro bianco della galleria con appeso al collo il classico semaforo giallo newyorchese che spruzzava colore da tutte le parti. Era un muro piccolino e dipinto principalmente a pennello.

Non c’è più?
No, da tempo ormai, era legato alla mostra. Però c’è ancora quello che considero il mio primo vero muro, fatto 9 anni fa e con cui ha iniziato a girare il mio nome a New York. Il pezzo è quello di una calavera (che significa teschio e riprende la cultura del dia de los muertos messicano) che cavalca una iguana [274 Scholes Street, N.d.R.] e lo pubblicarono sia su NYC street art che su Brooklyn street art. Quello era il momento in cui molti blogger iniziavano a fotografare la scena della Street Art di Brooklyn e contribuivano a farla esplodere. Grazie anche a loro ho avuto molta visibilità.

E succedeva tutto in questo quartiere?
Sì, prevalentemente in questa zone. Tra Bushwick e Williamsburg, dove ci stiamo dirigendo ora. Arriviamo da sud, così passiamo dal Williamsburg Cinemas, che sul retro ha un mio lavoro. [Super Heroes, 2014 -217 Grand Street, N.d.R.].

Iena Cruz, Super Heroes Thematic, 2014. L’opera si trova sul retro del Williamsburg Cinemas, al 217 di Grand Street, New York. Photo courtesy of the artist

Iena Cruz, Super Heroes Thematic, 2014. L’opera si trova sul retro del Williamsburg Cinemas, al 217 di Grand Street, New York. Photo courtesy of the artist

Wow! Questo è un bel muro! Come hai ottenuto questo incarico?
Vivevo nella zona e vedevo sempre questo bel muro bianco. Pensavo che ci sarebbe stato bene un murale e così mi sono proposto. Mi hanno risposto chiedendomi cosa avessi in mente e quale era il mio budget e da lì siamo partiti. Trovare muri su cui dipingere a New York non è mai stato un problema. Arrivando dall’Italia ho scoperto fin da subito che riuscire a fare dei murales qui era molto più semplice. Da noi dovevi sempre avere permessi scritti o conoscere qualcuno che aveva un muro. Qui invece era facile trovare un proprio spazio.

Questa è una zona che negli ultimi dieci anni è diventata molto alla moda. Avere un’opera su queste strade dà grande visibilità. Quali sono le altre opere qui intorno da vedere?
Da qui basta girare l’angolo e si incontra un muro in cui ci sono lavori di Tristan Eaton, che è un pezzo da novanta e per me è stato di grande ispirazione, in collaborazione con How & Nosm, due gemelli affermati a livello internazionale [158, Roebling Street, N.d.R.]. Poi da qua non c’è una grande concentrazione di muri, iniziano a essere un po’ più sporadici. Più avanti, nella zona di Bedford, su Berry, c’è un pezzo storico di Roa, il famoso scoiattolone [Squirrel, 2013 – 160 Berry Street, N.d.R.].
Una volta su Berry Street, andando verso nord, dall’altro lato della strada, incontriamo un murale molto bello dell’artista Faith XLVII che però non si nota subito perché è in alto ed è fatto con colori simili a quelli del muro, su tinte di giallo e marrone, quasi un camouflage. È un po’ nascosto ma va visto [Lay Your Weapons Down, 2018 – 125 Berry Street, N.d.R.]. Sempre su Berry Street, proseguiamo verso il MCCarren park e arriviamo a un muro [22-32, Berry Street, N.d.R.] dove c’è un altro mio lavoro, di fianco a quelli di tre artisti: la parigina Oscar Lett, l’artista messicana Varenka Ruiz, che scrive anche per Juxtapoz magazine, e poi un duo nuovo, i Low Bros, molto forti. È un edificio che ha quattro murales tutti insieme, siamo davanti al parco e ne puoi approfittare per farti un giro.

Capita spesso di lavorare insieme ad altri street artist?
Beh, ora non credo proprio con questa cosa del virus!

No dai, tanto voi le mascherine le portate lo stesso e lavorate all’aperto!
Ahaha, è vero. Beh, in genere io lavoro volentieri con altri artisti e mi è capitato di coinvolgerne in progetti miei. Però non è necessariamente la regola.

Non è una community quella degli street artist di Brooklyn?
Brooklyn è un grande paesone, ci si conosce un po’ tutti. La community c’è ma è più legata al mondo dei graffiti. Quando vai a fare graffiti su un wall of fame, ci vai in dieci ma se fai un tuo muro lo fai per fatti tuoi. Però anche quando un artista lavora da solo sta comunque facendo un atto comunitario perché, lavorando per strada, interagisce con la comunità locale, il quartiere. La gente si ferma, chiacchieri con quello che è andato a comprare il pane, quello che si è andato a fare la birra là vicino, quello che abita lì davanti. È il bello di dipingere per strada, fai nuove amicizie, conosci nuova gente, la gente scopre il tuo lavoro e si appassiona e così si crea il senso di community.

Ci sono ancora writer che fanno graffiti illegali oppure ormai sono tutte commissioni?
L’arte illegale c’è ancora ma è molto più legata al graffito, al bombing, al tag, a tutto quello che ha a che fare con la velocità di azione. Mentre quello che io cercavo era non avere fretta, non dover correre e avere invece il tempo di lavorare con tranquillità. Però quello dei graffiti è ancora un fenomeno molto presente e in questo lockdown, con le strade vuote, sta esplodendo di nuovo. Nelle strade qui intorno, tra Williamsburg e Bushwick, stanno bombardando. Ho fatto vari giri per vedere cosa c’era di nuovo e, soprattutto sui pannelli che sono stati installati per coprire le vetrine dei negozi chiusi, stanno facendo un sacco di cose, anche di wheatPaste. Si stanno divertendo parecchio.

Maurita Cardone

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Maurita Cardone

Maurita Cardone

Giornalista freelance, abruzzese di nascita e di carattere, eterna esploratrice, scrivo per passione e compulsione da quando ho memoria di me. Ho lavorato per Il Tempo, Il Sole 24 Ore, La Nuova Ecologia, QualEnergia, L'Indro. Dal 2011 New York è…

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