Goya e l’avvento della modernità. La mostra a Milano 

A Palazzo Reale settanta opere, tra dipinti e incisioni, di uno dei più importanti pittori spagnoli trattegiano la portata della rivoluzione artistica incarnata da Francisco Goya

“Il sonno della ragione genera mostre”, si è cominciato a dire scherzosamente qualche tempo fa parafrasando Goya, per commentare la proliferazione di esposizioni non abbastanza ragionate: mostre che attraevano il pubblico di massa con un grande nome nel titolo per poi presentarne una ridotta quantità di opere minori. La stagione di Palazzo Reale di Milano smentisce questa tendenza, con un programma di livello che comprende tra l’altro proprio una mostra del rivoluzionario maestro spagnolo. Mentre la concomitante rassegna su El Greco soddisfaceva per ampiezza e importanza, quella su Francisco José de Goya y Lucientes (Fuendetodos, 1746-Bordeaux, 1828) non si offre come retrospettiva completa, ma propone un affondo mirato che coordina approccio storico e sguardo contemporaneo. E va sottolineato per inciso come la compresenza dei due autori sia stimolante, perché in entrambi i casi ci si trova al cospetto di due anticipatori che, con sguardo retrospettivo, mettono in discussione (senza smentirla, ma sfumandola) la collocazione temporale del cambio di paradigma che a fine Ottocento/inizio Novecento scinde definitivamente antico e contemporaneo. 
Tornando a Goya, la mostra curata da Víctor Nieto Alcaide è intitolata La ribellione della ragione, e riunisce settanta opere tra dipinti e incisioni. Pur abbracciando a campione le diverse fasi della sua carriera, il percorso si focalizza in particolare sui momenti di deviazione, sulle successive rivoluzioni che superano i canoni dell’epoca e allo stesso tempo ripensano e modificano radicalmente la pittura dell’artista. L’allestimento dà il ritmo di queste evoluzioni, caratterizzato da una progressione dalla luce al buio, con l’intervallo del rosso che contrassegna il tema della guerra.  

Francisco Goya, Il manicomio, dalla serie Cuadros de fiestas y costumbres, 1808-12, Olio su tavola, Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, Madrid
Francisco Goya, Il manicomio, dalla serie Cuadros de fiestas y costumbres, 1808-12, Olio su tavola, Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, Madrid

La mostra di Goya a Milano 

Nella prima sala, l’Annibale vincitore del 1771, l’Autoritratto al cavalletto del 1785, il Carlos IV  e la Maria Luisa de Parma del 1789 gettano le basi del discorso, illustrando il punto di partenza della sua evoluzione stilistica dall’apprendistato al riconoscimento come pittore di corte, dunque come ritrattista di grande genio ma fedele ai criteri della committenza. La presenza in apertura dell’autoritratto facente parte del ciclo incisorio dei Capricci funziona come anticipazione di ciò che accadrà in seguito. La seconda sala introduce invece già il primo dei diversi passi fuori dai sentieri tracciati che si incontreranno nel corso della mostra. Pur rimanendo nell’ambito della corte, i dipinti affermano individualità, in particolare nei temi “popolari”. Costituiscono uno degli apici inaspettati della mostra le corride dipinte e incise e ancor più le piccole tele che illustrano momenti di gioco infantile. In quest’ultimo ciclo, in particolare, l’espediente pittorico raggiunge vertici altissimi nonostante o forse a causa della stilizzazione, colore e disegno si mescolano già alla perfezione (fenomeno che nella storia dell’arte si diffonderà solo diversi decenni dopo), lo sguardo è già “dalla parte del popolo” (come avverrà compiutamente e svelatamente solo a fine Ottocento con la pittura socialisteggiante). 

Francisco Goya, Tu che non puoi, dalla serie Caprichos, 1797-99, Acquaforte e acquatinta, Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, Madrid
Francisco Goya, Tu che non puoi, dalla serie Caprichos, 1797-99, Acquaforte e acquatinta, Real Academia de Bellas Artes de San Fernando, Madrid

Le opere di Goya in mostra a Palazzo Reale 

Nel capitolo dedicato alle commissioni (si vedano qui  tra l’altro La cattura di Cristo, 1797-99, San Francesco Borgia si congeda dalla sua famiglia, 1788 circa, e La Vergine con san Gioacchino e sant’Anna, 1786 circa) i temi della pittura sacra diventano il campo di una lotta inesausta e inesauribile tra buio e luce – e si instilla già il sospetto che, in Goya, le tenebre si guadagneranno definitivamente la scena. L’oscura grandeur della pittura dell’artista sboccia poi pienamente nelle sezioni successive, dove sfilano i ritratti di stupefacente intensità che rimangono forse la sua produzione più nota e amata, o comunque quella dal tocco più immediatamente riconoscibile. Basti citare, qui la María Gabriela Palafox y Portocarrero, marquesa de Lazán (1804 circa), il Don Francisco García de Echaburu (1785 circa) o il Mariano Goya “Marianito” del 1813-15, in cui sembra di vedere già occhieggiare la successiva rivoluzione, quella di Manet. Nella sezione dedicata alla amicizie dell’artista in ambito illuminista, poi, ci si trova davanti a un altro momento di deviazione e straniamento. I volti dei ritratti qui riuniti abbandonano un po’ di maestosità per concedersi una caratterizzazione intensissima: l’inusitata resa del viso del Juan de Villanueva (1800-05) è, ad esempio, uno dei molti passaggi “perturbanti” della mostra. 

Francisco Goya (attribuito a), Il Colosso, post 1808, Olio su tela Museo Nacional del Prado, Madrid
Francisco Goya (attribuito a), Il Colosso, post 1808, Olio su tela Museo Nacional del Prado, Madrid

Goya e il nuovo ruolo dell’artista  

Ma la rivoluzione deflagra e si infiamma definitivamente nelle ultime sale, intitolate rispettivamente Vigilare e denunciare; Goya e la guerra; La libertà critica e l’allargamento dell’immaginazione. L’artista diventa critico sociale, si congiungono arte e vita (non tanto con riferimento alla biografia dell’artista ma a ciò che gli succede attorno), la satira si ritaglia uno spazio di primo piano. Soggetti come Manicomio, Processione di flagellanti, Scena di inquisizione (tutti e tre oli su tavola del 1808-12) vengono nobilitati pittoricamente senza essere addolciti – al contrario – e introducono alla nuova temperie oscura, infuocata e senza compromessi, per poi passare al tema della guerra: qui, il Colosso (posteriore al 1808) attribuito a Goya è un perfetto manifesto filosofico dei lati oscuri della società umana. Ad esso si affianca un’ampia selezione delle più importanti incisioni dell’artista, dai Disastri della guerra ai Capricci (in alcuni casi accompagnate dalla lastra appena restaurata). L’Autoritratto del 1815 e il Tío Paquete (1819-20 circa) rappresentano infine una sorta di riassunto di tutto quanto esplorato nel corso dell’esposizione, tele che appaiono come ricettacoli dell’oscurità del mondo ma che sono allo stesso tempo ricchi di vitalità, per quanto martoriata e dolente. 
L’esposizione milanese dimostra come con Goya l’idea di modernità politica e quella di Illuminismo si compiano a livello visivo, perché l’artista diventa pienamente cittadino. Entrano in gioco nella pittura l’analisi della situazione sociale e storica, l’idea di movimento dinamico della Storia (come invocazione del progresso oppure diagnosi di regresso), il confronto tra ideale e situazione storica contingente. E anche rimanendo in campo artistico, la rivoluzione di Goya è assoluta, perché anticipa la stagione dell’artista come individuo e creatore autonomo, non imbrigliato in canoni e precetti. Il che significa anticipare l’arte moderna.

Stefano Castelli 



Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Stefano Castelli

Stefano Castelli

Stefano Castelli (nato a Milano nel 1979, dove vive e lavora) è critico d'arte, curatore indipendente e giornalista. Laureato in Scienze politiche con una tesi su Andy Warhol, adotta nei confronti dell'arte un approccio antiformalista che coniuga estetica ed etica.…

Scopri di più