L’estetica del disastro e il dramma della guerra. La mostra di Omar Mismar a Milano 

Omar Mismar parla della guerra senza mai mostrare il sangue, l’esplosione e l’odore. Ne parla lateralmente. La mostra è alla Galleria Secci di Milano

Un uomo accovacciato ci guarda dal basso, non è né triste né preoccupato. I suoi piedi poggiano su un mosaico bizantino del V-VII Secolo d.C. decorato con disegni di papere, conigli, lupi e altri animali. Il vecchio si chiama Salman al-Nabahin ed è (era?) proprietario di un uliveto nel campo profughi di Bureij, nella Striscia di Gaza. La sua figura, quella di un comune contadino, testimonia di una storia simbolica straordinaria, riproposta dall’artista libanese Omar Mismar (1986) con la tecnica, a sua volta, del mosaico.  

Omar Mismar, Excercises in Ruins, installation view a SECCI Gallery, Milano, 2025. Photo Stefano Maniero, courtesy the artist and SECCI
Omar Mismar, Excercises in Ruins, installation view a SECCI Gallery, Milano, 2025. Photo Stefano Maniero, courtesy the artist and SECCI

La mostra di Omar Mismar da Secci a Milano 

È il 2022, quando l’uomo, scavando per ripiantare degli ulivi, scopre l’esistenza della preziosa pavimentazione e avvisa immediatamente le istituzioni preposte al patrimonio archeologico. Viene fotografato, anche con il figlio, nell’atto di prendersi cura del tesoro scoperto e, da queste fotografie pubblicate su Internet, Mismar decide di realizzare un mosaico. L’opera è esposta, insieme ad altre della serie, alla sua prima personale italiana, intitolata Exercises in Ruins, in corso alla Galleria Secci di Milano, ed è come un tappeto volante che fluttua tra passato e presente. È la sospensione di un momento: un simbolo di resistenza all’annoso sradicamento fisico e identitario degli ulivi (sostituiti con migliaia di pini) dalle autorità israeliane. La mostra, curata da Marco Scotini, è l’istantanea di un vuoto, di un cumulo di rovine, di ciò che resta; ma è anche l’affermazione della memoria nonostante tutto. La visione di Omar, frammentata e incompleta, risente sotterraneamente della violenza delle guerre viste e vissute.  “Le rovine del disastro in Mismar”, scrive Scotini, “non sono tanto quelle di un’esplosione visibile, quanto il risultato di un’assenza, di un fallimento, di una rottura meno percepibili”.  

Omar Mismar, Excercises in Ruins, installation view a SECCI Gallery, Milano, 2025. Photo Stefano Maniero, courtesy the artist and SECCI
Omar Mismar, Excercises in Ruins, installation view a SECCI Gallery, Milano, 2025. Photo Stefano Maniero, courtesy the artist and SECCI

Mismar e i Monuments Men della Siria 

Ma come si avvicina l’artista all’uso di una tecnica così arcaica per riprodurre immagini evanescenti e iper-contemporanee che si ritrovano prevalentemente sul web?  
Nel 2015, Mismar entra in contatto con i Monuments Men della Siria, i conservatori del museo Ma’arrat al-Numan che s’impegnano a mettere in salvo i mosaici minacciati dai bombardamenti del regime di Bashar al-Assad. “Sono rimasto attratto dalla piattezza delle immagini ma anche dalla relazione tra le tessere e i pixel”. Dall’incontro con Abou Farid, ispettore archeologico e conservatore, nasce in lui l’amore per i mosaici come forma di resistenza culturale fisica, concettuale e materiale. L’accesso all’archivio del conservatore costituirà un’inesauribile fucina di immagini e le loro conversazioni saranno declinate nel video-dialogo Abou Farid’s War (2021), presente in mostra, sulla creazione e distruzione in tempo di guerra.  
Tra le ossessioni di Mismar, che ha vissuto a lungo negli USA ed è tornato stabilmente in Libano, l’estetica del disastro, la distanza e il desiderio.  

Omar Mismar, Excercises in Ruins, installation view a SECCI Gallery, Milano, 2025. Photo Stefano Maniero, courtesy the artist and SECCI
Omar Mismar, Excercises in Ruins, installation view a SECCI Gallery, Milano, 2025. Photo Stefano Maniero, courtesy the artist and SECCI

Il disastro della guerra nella mostra di Mismar 

Un gruppo di altri mosaici, Torsos (2025), ritrae corpi maschili su sfondo bianco: torsi muscolosi senza volto e senza gambe come pezzi di carne presi dalle app d’incontri gay. Decontestualizzati, ma molto curati, i corpi sembrano mutilati, spezzati, appartenuti a un’epoca remota. La forma vuota del cellulare, lasciata bianca, conferma il tradizionale effetto selfie della posa. Non c’è niente. Nient’altro che narcisismo, insicurezza, desiderio. Come non collegare i corpi che abitano il vuoto fluttuante della rete ai corpi in mimetica dei soldati e delle vittime? Come non pensare alla perdita di sé?  
Una delle stanze sulla vetrina esterna della galleria, è illuminata da un neon rosso a forma geometrica. The Path of Love (2013) è parte di un insieme di opere, parzialmente performative, realizzate tra lo spazio del web e lo spazio fisico della città. “Appena trasferito a San Francisco nel 2013” ha dichiarato l’artista, “ho deciso che, per un periodo di trenta giorni, avrei scelto ogni giorno, dall’app Grindr, un uomo che desideravo e avrei cercato di approcciarmi a lui il più possibile usando la geolocalizzazione. Sceglievo l’immagine, guardavo la distanza che mi separava e mi avviavo camminando verso la destinazione. L’idea era che, invece di navigare e muovermi nel gps, navigavo verso il mio desiderio. Disegnavo tutto il percorso fatto a piedi e intitolavo l’opera con la data di quel giorno. In quel momento, avvicinandomi alla realizzazione del desiderio, analizzavo quanto la questione fosse legata al fallimento di un incontro. Quante volte l’altro va off line, sparisce o s’interrompe la connessione? Era tutto incerto. Ho fatto 30 disegni degli itinerari, alcuni di questi li ho realizzati al neon altri no. Ma non ho mai incontrato nessuno di loro”. Ad oggi, nessuno sa se Salman e suo figlio Ahmad siano ancora vivi, se il mosaico trattato con tanta cura sia stato distrutto dalle bombe e se gli ulivi siano bruciati. Nella terra devastata, in the waste land, sono rimasti pezzi di corpi, vite rubate, arti e assassini. Omar Mismar parla della guerra senza mai mostrare il sangue, l’esplosione e l’odore. Ne parla lateralmente. In Olive in the Sun l’enorme ombra di un ulivo, sopra il mosaico bizantino, è un testimone implacabile del carattere e della forza della terra nonostante l’irreversibile devastazione. 

Manuela Gandini 



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Manuela Gandini

Manuela Gandini

Manuela Gandini è critica d’arte contemporanea, curatrice e docente alla NABA di Milano. Scrive per “La Stampa” e “Il Manifesto” ed è responsabile della sezione Forme della rivista “Machina”. E’ autrice del volume “Ileana Sonnabend. The queen of art” (Castelvecchi…

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