Dal cosmo all’immagine. Fabio Sciortino in mostra a Palermo
La nuova mostra delle Officine Bellotti è un ritorno nella sua città. Fabio Sciortino porta a Palermo la sua pittura e un saggio del suo lavoro scultoreo, indagando sulla materia viva e le metamorfosi della natura
La pittura metamorfica di Fabio Sciortino (Monreale, 1971) vive l’inquietudine e l’incanto di chi resta al cospetto del paesaggio in cerca di un qualche segreto, di un’origine persa; e poi però, puntando lo sguardo all’orizzonte – per schiarire, per mettere a fuoco e scavare – si ritrova a cancellare le linee diritte e le forme risolte, le architetture stabili, le porzioni in successione armonicamente distribuite. Il paesaggio si fa allora impeto e tempesta, pittura romanticamente dissolta, ma anche vivace diletto, respiro ampio e fioritura.

L’investigazione del mondo nella pittura di Fabio Sciortino
Palermitano di Monreale, docente di Pittura all’accademia di Firenze (dopo molti anni di insegnamento a Carrara), Sciortino porta avanti con inscalfita dedizione il suo lavoro artistico, muovendosi in una dimensione intima, poco incline alle logiche di sistema, tantomeno ai compromessi commerciali: pochi progetti installativi, accuratamente scelti, perseguendo una ricerca sulle forme plastiche, spesso in contesti pubblici en plein air; in parallelo la pratica della pittura, come investigazione ininterrotta. La natura resta al centro: sostanza fisica, ispirazione, piano d’indagine e detonatore fantastico che rigenera forme visibili ed energie sotterranee.
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La mostra alle Officine Bellotti di Palermo
La personale ospitata dalle Officine Bellotti – centro artistico polivalente inaugurato nel 2024, dove un tempo aveva sede una storica cartoleria-tipografia – segna il ritorno dell’artista a Palermo, dopo molti anni di assenza. I 64 dipinti e un’unica opera ambientale scandiscono le aree espositive del pianoterra e del primo piano, come a condividere un territorio esploso, un arcipelago di frammenti geologici, molecolari, subacquei, sottratti al fluire festoso o tragico del creato, per tornare trasfigurati dall’alambicco di un’astrazione organica.
Curata da Ida Parlavecchio, la mostra prende in prestito il titolo da un saggio della filosofa e teorica politica Jane Bennett (Materia vibrante. Un’ecologia politica delle cose, Timeo, Palermo 2023), tra le voci più autorevoli dell’ecosofia contemporanea. Il volume esplora quella “potenza delle cose” che attraversa l’organico e l’inorganico, la sostanza viva e quella inerte, e dunque fauna, flora, oggetti, rifiuti, scarti, ovvero tutto ciò che esiste e si trasforma senza sosta. Nel tentativo di “teorizzare una materialità che sia tanto forza quanto entità, tanto energia quanto materia, tanto intensità quanto estensione”, Bennett promuove – tra affettività e logica – un’idea di agentività che superi il dominio dell’umano e aiuti a riconoscere la vitalità di forze eterogenee, a partire dalle quali intraprendere politiche ecologiche più responsabili e sostenibili.
L’importante riferimento teorico diventa qui cornice e filo rosso, idealmente condotto sul piano sintetico dell’immagine, mentre “nuvole, rocce, colline, vento, fuoco, luce, umori – scrive Parlavecchio – compongono pattern continuamente mutevoli, configurano moti vorticosi e senza centro”.

La pittura di Fabio Sciortino
Così corrono e scorrono gli strati di pittura che Sciortino dispiega su tela e in qualche caso su carta, esattamente come fluiscono quelle energie molecolari, fisiche, terrestri, ma anche psichiche e spirituali, che attraversano il microcosmo umano e il macrocosmo del pianeta. Una pittura astratta, fatta di pennellate pastose e di velature liquide, dissolta ed evaporata tra i contorni che sfumano, le forme azzerate, gli orizzonti moltiplicati. Le masse si muovono e si incrociano, qui più scure e cavernose, altrove leggiadre e primaverili; e nel cercare un equilibrio che leghi i livelli, i timbri cromatici, le porzioni di visibilità o invisibilità, la cifra ricorrente di un pointillisme pulviscolare è elemento che – quando resiste alla tentazione decorativa o alla ridondanza – suggerisce simbolicamente misture di polveri magiche, di piogge acide, di pollini, sementi, sciami siderali, particelle atomiche, scorie.
Le tele più recenti della serie Materia vibrante (2024-25) raggiungono in tal senso una compiutezza superiore rispetto ad altri dipinti, tale da suggerire la necessità di una selezione più serrata: scansando ogni decorativismo, superando certe rigidità, amalgamando meglio la materia stessa, il paesaggio negli ultimi lavori sopravvive, costantemente alterato, tenendosi in superficie e in profondità nel segno della sintesi e di un divenire pieno. Una finitura cerosa, tattile, giunge a compattare ulteriormente e a levigare, sigillando piacevolmente il tumulto informale. Quasi un recupero di quella freschezza che guidava i piccoli esperimenti a inchiostro e varechina su carta del 2012 (Nuovo paesaggio), ma dentro il corpo magmatico di una pittura stratificata.

L’installazione nell’ex deposito di Bellotti
È poi nell’affascinante deposito dismesso dell’ex cartoleria Bellotti che Sciortino colloca l’unica installazione in mostra. L’ambiente, non toccato dai restauri che hanno interessato l’edificio, ha mantenuto un aspetto vissuto e una cifra industriale più smaccata: è qui che gli artisti elaborano interventi site-specific, confrontandosi con i materiali grezzi e robusti, con l’assenza di finestre, con le alte scaffalature a vista, distribuite lungo le pareti e ancora identificate dai codici per la classificazione delle merci.
Sciortino vi costruisce un giardino di vetro soffiato, lasciando sbocciare una selva di steli trasparenti direttamente dal suolo: sono 2.500 stalagmiti, scintillanti e irregolari, piantate su altrettanti fori praticati nel cemento e raccolte in un cerchio perfetto, a simulare un’aiuola di ghiaccio. È l’azione clinica e dolce della fiamma a consentire la formatura del vetro, con un’operazione di millimetrica precisione che tiene l’oggetto su un punto generativo di equilibrio, a un istante dalla rottura. Preziosità dell’effimero e imperfezione armonica dell’esistenza. L’effetto è onirico, con questa pioggia capovolta, questa arborescenza ordinata e circolare, sagomata nel buio da un’unica luce puntata. Dal fascio radente e basso viene il suggestivo doppio: proiettati sulle pareti attorno, i fragili fusti disegnano un altro giardino magico, trama d’ombra che mette in movimento lo spazio delicatamente.
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I giardini di vetro di Fabio Sciortino
Parte dell’iconografia dell’artista, questi piccoli eden sono stati concepiti negli anni in luoghi diversi, con dimensioni e soluzioni di allestimento sempre nuove. Se ad esempio nel 2010, a Seravezza, in provincia di Lucca, Sciortino ne installava uno fra i massi e i flutti di un corso d’acqua fluviale, nel punto di convergenza tra i torrenti Serra e Vezza, là dove si origina il fiume Versilia, nel 2023, all’esterno del Museo Oddi Ricci di Piacenza, piantava tra l’erba incolta del terreno gli stessi elementi trasparenti, fitti e dritti come steli, qui e là sormontati da boccioli vitrei colorati, modellati dalla fiamma. Due esperienze costruite sulla dialettica e la prossimità tra naturale e artificiale.
A Palermo la sfida è tutta diversa. Qui mancano il sole, il cielo, il verde della vegetazione, le linee dei boschi o il gorgoglio dei ruscelli. Il respiro del paesaggio resta solo nel ricordo, dentro un vecchio magazzino che odora di torchi, di carte, di inchiostri, di vicoli urbani. Si procede dunque per contrasto, forzando, sfondando, immaginando un’apertura, imponendo un luccichio alieno. Così l’hortus conclusus cristallino, con le sue micro bolle, con le imperfezioni che ricordano pistilli e gemmazioni, spunta dal duro pavimento e materializza l’incantesimo, tra fragilità e forza.

Il paesaggio come materia interiore
Dalla pittura alla scultura, dal paesaggio selvatico al giardino, Sciortino continua dunque a misurarsi con la grammatica del pigmento, con la plasticità dei materiali, con la ritualità del gesto che forgia e stratifica, perseguendo quell’azione trasformatrice e poietica esercitata sul reale dall’occhio e dal linguaggio. Non senza percepirne la corrispondenza con un mondo emotivo risonante: “I miei paesaggi – spiega l’artista – “attingono alla realtà, ma non sono realistici. Sono magma originato da pulsioni interiori, come dalla tensione reattiva degli agenti chimici, che entrano in gioco nel loro stesso processo generativo”.
Helga Marsala
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