Cosa si intende per “giardiniere dei dati”? Intervista all’artista Jinjoon Lee

Artista e direttore creativo coreano, Jinjoon Lee intreccia arte, tecnologia e coscienza in installazioni che trasformano dati e paesaggi in esperienze sensoriali vive. In questa intervista ci parla di empatia aumentata, etica digitale e poesia della natura

Artista e direttore creativo coreano, Jinjoon Lee esplora da anni i confini tra arte, tecnologia e coscienza umana. Le sue installazioni multimediali fondono elementi naturali e sistemi digitali, invitando il pubblico a vivere esperienze immersive in cui dati, suoni e paesaggi si intrecciano in ecosistemi sensoriali vivi.
Dopo il pionieristico Space Transmission Project Good Morning Mr. G-Dragon, realizzato con l’icona del K-pop G-DRAGON – una performance che univa dati biometrici e trasmissione sonora nello spazio – la sua ultima installazione, Cine-Forest: Awakening Bloom, è una grande performance multimediale guidata dall’Intelligenza Artificiale che trasforma una foresta urbana in un teatro a cielo aperto dove tecnologia, natura e umanità si incontrano. Parallelamente, la mostra personale Champagne Supernova, da poco conclusasi a Seoul, ha affascinato il pubblico con la serie di collage ibridi Nine Reincarnation, opere che intrecciano creatività umana e intelligenza artificiale in una riflessione poetica sul post-digitale. 

In questa intervista, Jinjoon Lee racconta come la sua pratica si muova tra il visibile e l’invisibile, il biologico e il digitale, affrontando temi come l’empatia aumentata, l’etica dei dati e la poesia della natura nell’era dell’IA.

jinjoon leeportraitcourtesy of jinjoon lee studio photo by sun kim cjinjoon lee studio Cosa si intende per “giardiniere dei dati”? Intervista all’artista Jinjoon Lee
Jinjoon Lee Portrait Courtesy of Jinjoon Lee Studio Photo by Sun Kim ©Jinjoon Lee Studio

L’intervista a Jinjoon Lee

Il tuo lavoro spesso agisce come un ponte tra mondi organici e sistemi computazionali. Dove vedi emergere la “vita” all’interno di questa relazione ibrida?
Credo che la “vita” emerga proprio al confine tra i due mondi che menzioni, quello organico (la natura) e quello computazionale (i dati). Non è un’entità fissa, ma piuttosto una vitalità o vivacità che si manifesta nel momento della transizione sensoriale da uno stato all’altro. Il ruolo dell’artista, per me, è quello di abitare questo spazio liminale, percepire e far emergere la vitalità che nasce tra questi mondi. In definitiva, scoprire un senso di vita, vitalità o persino estasi all’interno di questa soglia è anche connesso alla questione di quando la tecnologia diventi arte, nell’ambito dell’arte dei media. Cerco di comprendere la natura storica del medium e di catturare proprio questo momento di transizione.

Cosa fa il “data gardenist”

Ti definisci un “giardiniere dei dati”: qual è il gesto più umano in questo atto di coltivare i dati – la cura, l’ascolto, il controllo…?
Credo che il gesto più umano nel coltivare i dati sia la riorganizzazione, l’atto riflessivo di prendere frammenti, che siano elementi naturali o dati grezzi, e comporli in nuove costellazioni di significato. È qui che entrano in gioco la mano, l’occhio e l’intuizione umani, non per imporre una forma, ma per sentire, immaginare e ricomporre. Questo gesto è profondamente radicato nella filosofia antica dei giardini dell’Asia Orientale. In trattati come il Sakuteiki o nell’arte dell’Ikebana, lo scopo non è la replica, ma la disposizione selettiva, dove ogni pietra, ramo o fiore viene collocato deliberatamente per evocare asimmetria, impermanenza e l’invisibile. Il giardino, dunque, non è uno sfondo, ma uno spazio liminale, dove estetiche antiche e intenzione umana convergono. Come “data gardenist” abito questo spazio intermedio, riorganizzando i dati come pietre in un torrente – non per controllare, ma per aprire sentieri, sintonizzare sensibilità e coltivare nuovi modi di abitare il “Nowhere in Somewhere”.

Lavorando con dati biometrici, algoritmi e ambienti naturali, quali domande etiche ti sei posto riguardo al confine tra intimità umana e sorveglianza tecnologica?
La realtà trasformata dall’IA è intrecciata con questioni complesse come i bias dei dati e l’alfabetizzazione mediatica. L’accelerazione dell’IA ha raggiunto un punto in cui, nel tempo necessario a un utente per verificare l’autenticità di un risultato generato dall’IA, quest’ultima può già aver prodotto innumerevoli nuove falsità per sostenerlo. In questo circuito di retroazione a specchio, gli esseri umani rischiano di restare intrappolati in una camera d’eco. Considero questo fenomeno complessivo una “crisi epistemologica”. In tale contesto, la domanda etica più urgente per me è: “In un mondo così accelerato e tecnologicamente distorto, come possiamo comunicare davvero gli uni con gli altri?” L’IA generativa opera estraendo istantaneamente un’immagine (il risultato) dal linguaggio (il testo), tentando di colmare il divario tra i due. Gli artisti sono consapevoli del vuoto che esiste in questo spazio, e l’atteggiamento fondamentale dell’artista è guardare dentro quel vuoto. La mia metodologia, che utilizza dati biometrici come le onde cerebrali, è un tentativo di integrare quel vuoto con l’esperienza umana. Attraverso questo, cerco possibilità di comunicazione nella zona intermedia in cui umanità e tecnologia si incontrano.

In Cine-Forest, la natura diventa sia uno schermo sia un organismo vivente che risponde. Quanto sono importanti il caso e l’imprevedibilità naturale in un’opera che aspira a essere un ecosistema vivente piuttosto che uno spettacolo controllato?
Oltre alla tecnologia, ciò che completa l’atmosfera e il significato di Cine-Forest è la presenza del pubblico e gli elementi imprevedibili della natura, come il clima. Ha piovuto per due giorni consecutivi durante la performance, il che è stato impegnativo per tutti. Eppure, il momento più toccante è arrivato quando la pioggia ha smesso di sembrare un ostacolo, diventando parte integrante dell’opera. Abbiamo adattato in tempo reale il ritmo del suono e della messa in scena, mescolando i richiami delle rane e altri suoni naturali negli intervalli, permettendo agli spazi interni ed esterni – ai tempi passati e presenti – di interagire. Poeticamente, la pioggia sembrava come se il gigante della storia stesse spargendo su di noi luce stellare sotto forma di gocce di pioggia. Queste armonie inattese tra ambiente e narrazione hanno infuso la performance di vitalità, trasformandola da spettacolo controllato in un ecosistema vivente.

Cos’è l’empatia aumentata secondo Jinjoon Lee

Parli di “empatia aumentata”: credi che l’IA possa davvero insegnarci a provare empatia verso il non-umano – come un albero, il vento o una roccia?
La tecnologia estende e riconfigura i nostri sensi. Quando converge con l’arte, ci permette di interiorizzare l’esperienza dell’Altro, che si tratti di un’altra persona, di un essere non umano come un albero o il vento, o persino di entità artificiali o cosmiche. In Cine-Forest, ad esempio, il camminare e il respirare del pubblico diventavano parte della narrazione, consentendo di sperimentare la coesistenza organica di natura, città, tecnologia e umanità. Non era un semplice spettacolo tecnologico, ma un invito a immaginare migliori forme di coesistenza attraverso l’esperienza delle prospettive altrui. La fusione tra arte e tecnologia riduce così la distanza sensoriale ed emotiva tra uomo, macchina e natura, coltivando nuove forme di immaginazione sociale fondate su un’empatia ampliata. Da tempo esploro i confini tra mondi differenti, e credo che l’empatia sia la forma più vitale di comunicazione che nasce proprio nel punto in cui quei confini si incontrano.

I dati raccolti durante le tue performance sono un archivio, un materiale poetico o una memoria vivente? Che futuro immagini per essi?
Possono essere tutte queste cose. Ciò che conta è che questi dati non vengano usati per costruire finzioni speculative, ma per incarnare le storie delle persone e dei luoghi che mi circondano. Ascoltare sinceramente ciò che mi sta intorno mi ricorda di non trascurare i mondi reali e duraturi di chi vive qui. La performance Cine-Forest e i dati raccolti da essa segnano solo l’inizio di un’esperienza mediale totale che connette natura, umanità e tecnologia. Per esperienza totale intendo una che va oltre vista e suono, includendo aria, temperatura, umidità e persino il profumo della terra, tutto come parte di una narrazione sensoriale multilivello. Il pubblico vive un momento immersivo e fugace che non si ripeterà mai, e il mio obiettivo è progettare proprio quell’esperienza performativa effimera. A partire da questi dati raccolti, continuerò a sperimentare per infondere nel luogo una dimensione al tempo stesso totale e liminoide.

Laura Cocciolillo

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Laura Cocciolillo

Laura Cocciolillo

Laura Cocciolillo (Roma, 1997), consegue la laurea triennale in Studi Storico-Artistici presso la Sapienza di Roma. Si trasferisce poi a Venezia, dove consegue la laurea magistrale in Storia delle Arti, curriculum in Arte Contemporanea. Specializzata in arte e nuove tecnologie…

Scopri di più