L’ultima edizione della mostra diffusa in Abruzzo Straperetana parla di famiglie. Poi il format cambierà

Si ferma a nove edizioni la maratona ideata da Paola Capata e Delfo Durante nel piccolo borgo abruzzese, lasciando presagire nuovi formati di creatività per il futuro. Ecco come è la mostra che racconta il concetto di famiglia in maniera trasversale

Ci sono luoghi che all’improvviso entrano nell’anima. Così è stato per Paola Capata, energica e avventurosa gallerista che dopo aver fondato e fatto crescere la sua Monitor (tra le migliori gallerie di ricerca della capitale) un giorno capitò a Pereto, piccolo paese arrampicato sull’Appenino abruzzese e di colpo decise che da quel momento sarebbe stato la sua casa. Avremmo capito se in questo delizioso e faticoso presepe di pietra, tutto un salire e scendere, circondato da boschi e immerso in aria tanto limpida che il paesaggio intorno sembra stampato in HD, Capata avesse trovato il suo buen retiro lontano dalle ansie del mercato, dal trambusto delle fiere e dal traffico romano, ma non è stato così.

La storia della mostra Straperetana

Neanche un anno dopo averlo eletto a suo domicilio ufficiale, decide di condividere questa esperienza con tutto il mondo dell’arte e nel 2017 inaugura la prima versione di Straperetana. Una mostra diffusa a vocazione pubblica, che abbraccia le molte quote di questo borgo di montagna costringendo collezionisti, artisti, critici e addetti ai lavori a continue “discese ardite e risalite” come direbbe Lucio Battisti.
Di anno in anno, rinunciando ai tacchi e agli outfit firmati; approfittando delle navette messe a disposizione dalla galleria che partivano da Roma per inaugurazioni sempre spalmate nel caldo dei giorni di luglio; armato di borracce, ventagli e di cappellini… il popolo dell’arte ha risposto all’invito e Pereto è diventato un luogo amato, artisticamente riconosciuto e appuntamento fisso nelle agende.
Quindi sinceramente dispiace apprendere che l’edizione appena inaugurata, la Nona (12 luglio – 17 agosto), sarà l’ultima a costringerci alle fatiche di questo pellegrinaggio.  Anche se veniamo subito rassicurati dalla promessa che nuove formule e nuove idee ci costringeranno anche l’anno prossimo a raggiungere quella che i peretani hanno battezzato “la porta d’Abruzzo”.

Straperetana 2025, installation view at Palazzo Maccafani. Photo Giorgio Benni
Straperetana 2025, installation view at Palazzo Maccafani. Photo Giorgio Benni

L’ultima edizione di Straperetana

Ma “last but not least”, questa edizione  ultima, offre un finale flamboyant, perché la mostra curata dalla stessa Capata e da Annalisa Inzana è forse una delle più interessanti del rituale evento. Sicuramente tra le più attuali, come si evince fin dal titolo “Iperfamiglie” ovvero un’idea di famiglia che va decisamente oltre quella invocata dall’attuale governo, comprendendo non solo famiglie allargate o omogenitoriali, ma persino banchi di pesci, animali domestici, mondi vegetali e minerali, insomma tutte le divergenze e/o convergenze che siano in grado di creare nuclei affettivi e solidali. “In questo periodo storico complesso e incerto, “Iperfamiglie” si propone di raccontare la famiglia non come struttura rigida, chiusa o immutabile, ma piuttosto come un valore fluido e in continua trasformazione in cui i livelli di lettura sono capaci di adattarsi ai cambiamenti sociali, culturali e personali”, si legge tra le motivazioni curatoriali. Non ci vuole molto a capire che non siamo di fronte al retorico uso di Famiglia come primo passo per arrivare a Dio attraverso la Patria. 

La mostra a Palazzo Maccafani

Basta entrare nella prima sala di Palazzo Maccafani, nel punto più alto di Pereto da dove concettualmente parte la mostra, e incontrare uno dei lavori storici di Stefano Arienti: la serie di carte libere della fine anni Novanta primi Duemila, che con delicato pointillisme ritrae coppie gay, uomini nudi che chattano al computer, abbracci di corpi maschili reali e fuori forma, né giovani, né belli ma veri, indifesi, sinceri e immortalati nella loro intimità.
Una famiglia estesa che abbraccia una comunità intera e si riallaccia mentalmente a quella che Tomaso De Luca racconta nella stanza accanto. La suggestiva e affrescata “camera con vista” dove accanto a una distopica galleria di personaggi famosi violentemente sfregiati da Vedovamazzei (famiglia elettiva di artisti che lavorano in coppia), ritroviamo quei modellini di case che furono parte di un lavoro meritatamente premiato con il Maxxi Bulgari Prize 2020. Una pagina dolente della storia della comunità queer americana che, decimata dall’Aids, lasciò appartamenti vuoti e quartieri semideserti di cui si appropriò subito la speculazione immobiliare.
L’unica traccia di famiglia tradizionale sia pure in versione horror la troviamo nell’opera “Canto libero” di Marzia Migliora installata nel seminterrato: un telefono da sottomarino dove, mixate con i canti delle balene, si ascoltano le registrazioni di mogli malmenate che chiedono aiuto al centro antiviolenza,  mentre una rampa di scale più in basso,  nella Grande Cisterna,  la video animazione in bianco e nero di Gaia Alari ci costringe a prendere atto che l’intero pianeta è un’unica famiglia, che siam tutti figli di Madre Natura e che nel nostro patrimonio genetico ci sono tracce di piante, cellule di animali di acqua e aria, persino pietre e altre forme  minerali. 
Prima di uscire bisogna infilarsi in un piccolo corridoio e non lasciarsi sfuggire l’intensità di quattro disegni di Diana Anselmo, attivista queer e non udente che trasforma la sua sordità in un campo di ricerca usando il linguaggio dei segni dove la parola Arte e la parola Rabbia sono perfettamente omonime. E accanto un cimelio anni Settanta firmato Ketty La Rocca (“WaxDoll”) offre lettura del mondo dell’infanzia in termini per niente rassicuranti.

La mostra diffusa a Pereto

Scendendo poi lungo i vicoli che partono dal Castello tra gatti affettuosi, panni stesi, alberi di fico, lampioni in ferro battuto e tante finestre con tendine, incontriamo lo sguardo severo di un gruppo di ragazzine tutte imparentate, fotografate da Claudia Ferri in varie fasi della loro crescita a distanza di anni. Le ha battezzate “Le osservatrici” in quanto bambine a un passo dal diventare adulte, ma già addestrate a giudicare il mondo e a guardarlo dritto negli occhi. Una banda si direbbe, compatta e coesa non così diversa in fondo da quel banco di pesciolini ripresi da Alberto Podio,sub professionista e bravissimo fotografo che s’immerge nelle acque di Favignana e Marettimo per rubare intimità a intere tribù marine. Come questa, che ora ci appare affissa in una vecchia e riccioluta bacheca in ferro battuto, manifesto di questa Nona Straperetana dove anche le sardine hanno diritto di parola. “È una famiglia anche questa, compatta nella sua esistenza collettiva che la difende e la alimenta”, spiega Annalisa Inzana sottolineando la bellezza formale di questo vortice di piccoli corpi grigio/neri avvitati in una gigantesca piroetta subacquea. Siamo sulla piccola piazza dove affaccia Palazzo Iannucci seconda sede della mostra. È un edificio più vecchio che antico, soprannominato “la casa del prete”. Cosa che aumenta lo charme di luogo a lungo abitato e poi abbandonato oltre mezzo secolo fa, lasciando che gli oggetti, i mobili, le strutture continuassero a vivere e morire nella casa, indifferenti a qualsiasi modernizzazione.

La mostra a Palazzo Iannucci

Tra cotti sconnessi, caloriferi in ghisa ingialliti, infissi malfermi le opere di queste divergenti famiglie si trovano perfettamente a loro agio. Così è per le vecchie porte e foto che Alessandra Di Mizio ha portato lì dal paese d’origine Castel Sant’Angelo (PE); per la performance di Sabrina Iezzi che rende omaggio al maternage cullando le sue sculture in terra cruda e cotta come fossero figli e ricordandoci che la prima casa è sempre il corpo della propria madre; o ancora nella famiglia allargata agli animali domestici che convince Antonio Leone a creare una “portrait gallery” dei propri e nostri cani resi più umani che mai. Mentre nel vecchio letto di ferro dipinto ricostruito da MP5 giacciono le sagome di tre personaggi addormentati in una fiducia che lega l’uno all’altro, rompe la bidimensionalità della famiglia tradizionale, e si apre a nuovi sogni e infinite possibilità di amore. Ma è nella cucina grazie alle miniature di Odonchimeg Davaadorj, giovane artista mongola di grande talento, che il sogno si concretizza in piccoli e precisi disegni e acquarelli dove i ritratti di famiglia e di natura diventano un tutt’uno: una donna si fonde con un cavallo, un’altra apre il suo cuore per mostrarci un paesaggio e una nuova idea di natura rincorre gli affetti in una armonica visione del mondo. Ancora una scala: bisogna arrivare fino alla torre per trovare il punto più concettuale e astratto di questa mostra. La tesi ardita che porta all’idea che nel desiderio di famiglia c’è tensione verso l’infinito. Quindi ecco che la famiglia per l’artista e fotografo Giovanni Ozzola coincide con la sua ossessione per il mare, e il suo tentativo di catturarlo si traduce qui in visione molteplice composta di 20 pezzi dal significativo titolo “Amarti mi affatica”. Opera che non caso Ozzola installa sulla più alta parete del palazzo di fronte alla più alta delle finestre: orizzonti del mare contro il profilo di una montagna, confronto ravvicinato di spazio, cielo, immensità… È l’ultima sala, l’ultima scala, l’ultimo sforzo prima di affrontare la risalita verso il parcheggio e il potente castello romanico. E nel risalire in macchina, forse complice anche l’ossigenazione della inusuale camminata, ci si accorge che il “viaggio a Pereto” lascia ancora una volta traccia. Una visione, un pensiero, un’opera o un artista che rimane nella memoria con il proposito di tornare l’estate dopo.
Finora è stato così, uno di quegli appuntamenti ricorrenti che diventano rituali per una piccola comunità, una familiare buona abitudine alla quale speriamo, sia pure in una nuova forma e formula, non dover rinunciare.

Alessandra Mammì

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