Ecologia e big data. Intervista all’eco-artista Thijs Biersteker

La vita degli alberi trasformata in un flusso di dati, rifiuti plastici che “danzano” seguendo i movimenti dell’uomo, tubi scenografici pieni d’acqua inquinata dal fumo di sigaretta. L’eco-artista olandese mette in questione i nostri comportamenti con installazioni di grande impatto. Lo abbiamo incontrato a Milano

Il 29 luglio si è conclusa la rassegna di Meet The Media Guru dedicata ad Arte e Scienza + Tecnologia. Quest’anno MEET, il centro di ricerca sulla cultura digitale promosso dalla piattaforma, è entrato a far parte del programma S+T+Arts, inserito nel programma di ricerca e innovazione Horizon 2020 della Commissione Europea, diventando uno dei Regional STARTS Center. La partecipazione dell’artista e interactive designer Thijs Biersteker ha sottolineato come il dialogo tra arte e scienza possa divenire fluido ed immediato. Lo abbiamo intervistato per capire meglio come di sviluppa il suo linguaggio a confine tra nuove tecnologie e natura.

Hai scelto come manifesto della tua arte le conseguenze del cambiamento climatico sulle nostre vite. Come definiresti questa forma di eco-arte?

Non so se la definizione più appropriata per il mio lavoro sia eco-artista o awareness artist. Rispetto ad altre forme d’arte, la principale differenza sta nell’interpretazione del messaggio che l’opera porta con sé. Altri artisti lasciano lo spettatore libero di decodificare il racconto dell’opera, mentre nel mio caso il messaggio è l’incipit, forte e chiaro. L’immaginazione si sviluppa non tanto sul significato dell’installazione, ma sulle sue implicazioni che questo messaggio ha nella nostra realtà. L’enfasi è posta sempre sull’Eco e mai sull’Ego.

Quando, parlando di Mind over Matter con David Carson, scrivi: ”controllata dalle nostre onde cerebrali l’installazione mostra come focalizzarsi sulle cose giuste ci aiuti a non perdere il controllo della realtà circostante”, a cosa ti riferisci?

Mi riferisco alla necessità di strutturare, insieme, un sistema che ci riavvicini alla natura con azioni concrete e concertate. Ad esempio, piuttosto che focalizzare l’attenzione sul singolo per fare in modo che ricicli anche una sola bottiglia di plastica, bisogna puntare a orientare la produzione industriale verso la bio-plastica. Ci vuole un input che sposti la nostra attenzione dai singoli problemi al quadro generale per trovare soluzioni durature e definitive.

Nel tuo lavoro la connessione empatica tra te ed il visitatore si stabilisce mediante un linguaggio immediato ed esperienziale, come nel caso di Plastic Reflectic.

Faccio surf da quando avevo 12 anni e nel corso degli anni ho visto l’oceano diventare sempre più inquinato. Per convincere gli scettici attorno a me ho fatto numerose ricerche, per esempio sono entrato in contatto con la Plastic Soup Foundation e sono rimasto particolarmente colpito da uno studio portato avanti in Giappone.

E cosa hai scoperto?

Dimostra come i detriti che invadono i nostri mari deteriorandosi si trasformino in microplastiche che poi vengono mangiate dai pesci, gli stessi che finiscono sulla nostra tavola. Questi microelementi hanno la capacità di penetrare il tessuto cellulare e rimanere “incastrati”, per esempio, nell’adipe o nei muscoli, diventando parte del nostro corpo per sempre (la plastica è più longeva di noi, NdR). Ho sentito un brivido lungo la schiena, per la prima volta avevo davanti a me la prova che ci stiamo lentamente trasformando in “esseri umani di plastica”.


In che modo questo ha ispirato il tuo lavoro?

Ho realizzato uno specchio d’acqua che nasconde resti raccolti in oceani diversi fino al momento in cui una persona non vi si avvicina. In quel momento i resti affiorano e seguono sembianze e movimenti del visitatore, che dapprima gioca con installazione ma, nel momento in cui ne comprende il messaggio, nella maggior parte dei casi rallenta i propri movimenti e finisce per allontanarsi. Ho osservato lo stesso comportamento anche con Symbiosa (alla Fondation Cartier fino al 10 novembre, in occasione della mostra Trees) e con Voice of Nature (2018, Chengdu, Cina): quando si comprende il messaggio si percepisce la relazione diretta tra noi stessi e ciò che stiamo osservando, si empatizza con il problema e lo si fa proprio. Per tutti noi è difficile avere la percezione di un incendio finché questo non interessa il nostro giardino…

Per Symbiosa, con il neurobiologo fiorentino Stefano Mancuso, come avete reso tutti i dati che intorno alla vita di un albero di possono raccogliere un linguaggio per tutti?

Uno dei vantaggi di Symbiosa è che il visitatore sa già che visiterà un’esposizione sugli alberi, dunque conosce già il soggetto di studio. Il nostro ruolo è stato quello di aiutarlo a decifrare una serie di dati scientifici come in un puzzle. Il linguaggio visuale che abbiamo creato permette ad ognuno di entrare in sintonia con gli alberi e i loro ritmi, di comprendere i cambiamenti interni e l’influenza degli agenti esterni (per esempio, quando in città arriva l’ora di punta gli alberi assorbono una grandissima quantità di inquinamento, ed è anche il momento in cui le grafiche si impennano…)


Cosa ci puoi anticipare della tua prossima installazione, Polut Ends?

Come sempre l’idea nasce da un fatto che mi riguarda – ogni tanto fumo una sigaretta – e da una contingenza esterna, in questo caso la chiamata per una mostra in Cina. Chi non ha buttato qualche volta una sigaretta a terra? Oggi abbiamo, però, accesso ai dati che misurano l’impatto di quel mozzicone, in particolare in Cina dove tre milioni e mezzo di persone fumano (2.3 trilioni di sigarette fumate in un anno – dati della World Health Organization), e il 67% di queste sigarette finisce nella natura.

 E quindi?

È emerso dalle ricerche che un solo mozzicone di sigarette inquina 150 litri di acqua e, in un’ora, un solo litro di questa acqua è in grado di uccidere il 50% degli organismi marini con cui entra in contatto. In Polut Ends, l’acqua “inquinata” viene pompata all’interno di un reticolo di tubi trasparenti in quantità corrispondente al numero di persone presenti in quel momento nella stanza.

Qual è, in definitiva, il tuo obiettivo?

Quello che cerco di fare con il mio lavoro è avvicinare il discorso sul cambiamento climatico alle persone, che spesso si sentono piccole e impotenti di fronte a una questione così vasta e complessa.

  Flavia Chiavaroli 

thijsbiersteker.com

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Flavia ChiavarolI

Flavia ChiavarolI

Architetto, exhibition designer e critico freelance. Osservatrice attenta e grande appassionata di architettura ed arte moderna e contemporanea riporta la sua esperienza nell’organizzazione di workshop, collabora con artisti e fotografi e aggiornando i principali social network. Dal 2012 si occupa…

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