In che modo l’estetica influisce sulle cure mediche? La risposta dell’esperto

Guido Giustetto, Presidente dell’Ordine dei Medici di Torino, racconta in esclusiva ad Artribune gli impatti dell'estetica artistica sulla cura, vista come forma profonda di dialogo tra medicina e umanesimo

Vorrei che il mio medico provasse piacere nello stare con me”, scriveva Anatole Broyard, scrittore e critico letterario, nel suo memoir Intoxicated by My Illness. È da questa frase – semplice e insieme rivoluzionaria – che nasce la riflessione che guida questa intervista. Se la medicina è un’arte, in che modo l’estetica influisce sulla cura? Non solo nella scelta delle parole, nel tono della voce o nel modo di raccontare la malattia, ma anche nella configurazione degli spazi in cui avviene l’incontro tra medico e paziente. Un ambiente curato, armonioso, può incidere sulla percezione della cura tanto quanto il linguaggio utilizzato nel dialogo clinico? La bellezza, intesa come attenzione ai dettagli e alla relazione, può diventare un fattore terapeutico? In che modo il linguaggio del medico modella l’esperienza del paziente? La letteratura, con la sua capacità di dare forma all’esperienza umana, può diventare uno strumento di formazione per i medici, insegnando loro a scegliere le parole con la stessa attenzione con cui un poeta sceglie i suoi versi?

La cura e la sua estetica

Accanto alla parola, anche il silenzio è parte della cura. C’è una dimensione estetica nel saper tacere, nell’ascoltare senza interrompere, nel creare uno spazio di accoglienza per la paura e l’incertezza del paziente. Ma questa dimensione viene spesso sacrificata nella frenesia della pratica clinica. Parola e silenzio: strumenti poetici, ma forse anche clinici? Infine, l’estetica della curaè anche un’estetica della relazione. Il piacere di stare con il paziente, di riconoscerlo come individuo e non come caso clinico, può davvero fare la differenza? La medicina può ancora essere pensata come un’arte e il medico come un lettore attento della storia del paziente? Victor Montori, nel suo libro Why We Revolt: A Patient Revolution for Careful and Kind Care, dedica un intero capitolo al tema dell’eleganza nella cura. Scrive che la cura elegante non spreca nulla: né il tempo, né le parole, né la dignità”. È questa l’estetica che cerchiamo? Quella che nasce non dalla forma, ma dalla presenza autentica. Ne abbiamo parlato con Guido Giustetto, Presidente dell’OMCeO di Torino e direttore scientifico della rivista il Punto.it. In questa intervista abbiamo attraversato i confini tra etica, pratica clinica, arte e umanesimo.

Brera in Humanitas, ospedale Humanitas, Rozzano, 2023
Brera in Humanitas, ospedale Humanitas, Rozzano, 2023

Intervista al Dott. Guido Giustetto

È ancora possibile oggi immaginare una medicina che dia valore alla qualità estetica della relazione?
Credo di sì. Certamente non in ogni momento della pratica clinica, ma ci sono attimi di prossimità autentica in cui la cura si fa relazione. Broyard parlava del “piacere dello stare insieme”: non è solo un’utopia. È qualcosa che si percepisce nella qualità dell’incontro, quando non si è due entità separate ma si crea un “noi”. Anche solo per qualche minuto.

Può la bellezza – degli spazi, dei gesti, della parola – diventare un fattore terapeutico?
Senza dubbio. La bellezza è armonia, intenzionalità, attenzione. Anche un gesto tecnico – se compiuto con consapevolezza – cambia: è più specifico, più adatto alla persona. È una bellezza che non è forma, ma qualità del contatto. C’è modo e modo di toccare un braccio, di ascoltare un cuore. Anche se non sappiamo spiegare in cosa stia la differenza, la sentiamo.

E la parola? Quanto conta? La parola può guarire, ma può anche ferire. 
È una questione di scelta, di tono, di tempo. La letteratura ci insegna a usare le parole con cura: come un poeta che pesa ogni verso. È quello che dovrebbe fare anche un medico. E questo si può imparare. La parola fa parte della cura. A volte è la cura.

E il silenzio? Può far parte dellestetica della cura?
Si, senza subbio. Il silenzio fa paura, ma è un linguaggio. È una pausa che può contenere moltissimo: attenzione, riflessione, rispetto. Quando due persone riescono a condividere il silenzio – anche solo per pochi secondi – vuol dire che si fidano. In quel momento, la relazione è vera. E questo silenzio diventa parte della cura. Il silenzio è misura che quella relazione funziona. 

Il ruolo del tempo nella cura

Capita però spesso che il paziente si senta fuori posto, come se stesse facendo perdere tempo…
Sì, ed è un grande problema. Succede quando manca quella sensazione di essere davvero ascoltati. Non serve molto: un gesto, uno sguardo, una parola detta bene. La percezione della cura passa attraverso questi dettagli. È qui che l’estetica diventa terapeutica.

Che ruolo gioca il tempo? È davvero una questione di quantità?
No. Il tempo va educato, non misurato. Anche pochi minuti, se pieni, bastano a costruire una relazione efficace. Ma nessuno ci insegna a usarlo bene. Victor Montori parla di cura elegante: quella che non spreca nulla, né tempo, né parole. Serve presenza, non quantità.

E la continuità? Come si può sostenere una relazione nel tempo, nonostante le difficoltà del sistema?
Con memoria, coerenza, attenzione. Anche solo ricordare chi è una persona, richiamare un dettaglio della sua storia, è un gesto potente. Il paziente capisce che non è uno dei tanti. Questo crea continuità emotiva, anche se gli incontri sono brevi o distanti nel tempo.

Esistono davvero quegli attimi” che cambiano tutto?
Sì. Sono momenti di sintonizzazione. Non si costruiscono, accadono. Ma si può imparare a riconoscerli, a non farli scivolare via. Come nella poesia: una parola al momento giusto può trasformare tutto. Non è magia, è presenza. È essere davvero lì.

La relazione medico-paziente

Broyard chiedeva che il medico lo ricordasse. È ancora possibile, oggi?
È difficile, ma non impossibile. Il paziente non vuole solo essere curato. Vuole essere ricordato, riconosciuto, accolto. La medicina, se vuole tornare a essere umana, deve rispondere a questo desiderio. Perché la cura non è solo tecnica: è anche memoria, relazione, estetica.

Oggi assistiamo a un progressivo indebolimento del legame tra medico e paziente. La fiducia è il fondamento invisibile su cui si costruisce ogni relazione di cura autentica.  Perché oggi è così difficile costruire un nuovo rapporto di fiducia tra medico e paziente? E questa fiducia può essere parte dellestetica della cura?
La fiducia è il fondamento invisibile su cui si costruisce ogni relazione di cura autentica. Ma oggi questo equilibrio si è incrinato. I pazienti arrivano spesso con un bagaglio informativo enorme, a volte disordinato, e si aspettano un rapporto paritario che però non sempre si traduce in una vera alleanza terapeutica. Il risultato è una simmetria apparente, che rischia di indebolire la profondità della relazione. A questo si somma un sistema sanitario burocratizzato, che lascia poco spazio all’ascolto, alla memoria dell’altro, alla continuità. In tutto questo, il medico è chiamato a non tornare a un paternalismo ormai superato, ma a offrire una forma diversa di guida: accogliente, rispettosa, attenta. Una presenza che accompagna, senza imporre.

Questa fiducia può essere parte dellestetica della cura?
Sì, proprio qui che la fiducia ritrova il suo posto: in quella sintonizzazione protettiva, come la chiama Spinsanti, che può essere vista come una vera e propria forma di bellezza. Un’armonia relazionale fatta di gesti, parole e silenzi, capace di creare un luogo sicuro e significativo per il paziente. Quando un medico ricorda chi sei, ti guarda negli occhi e condivide con te anche solo qualche secondo di silenzio autentico, non sta solo esercitando una competenza: sta costruendo un’estetica della cura. Ti sta dicendo, senza bisogno di parole: “Tu conti, tu esisti”. E questo, oggi, è forse l’atto più semplice e più rivoluzionario della medicina umana.

Estetica e cure mediche 

La letteratura può davvero formare i medici?
Sì. Leggere romanzi, poesie, biografie come quella di Broyard significa imparare a vivere la vita degli altri. E vivere la vita degli altri è il presupposto per entrare in relazione. Purtroppo, però, la formazione medica spesso esclude questa dimensione, privilegiando solo il dato tecnico. Ma un medico che legge è un medico che sente.

Ma cosa significa, concretamente, formare i medici alla relazione e alla bellezza del gesto clinico?
Oggi più che mai, la formazione dei giovani medici dovrebbe includere uno sguardo umanistico capace di integrare competenze tecniche con empatia, ascolto e attenzione al linguaggio. Introdurre la medicina narrativa nei percorsi accademici non è un lusso, ma una necessità: significa offrire agli studenti gli strumenti per leggere la complessità del paziente, per vedere l’interiorità oltre la diagnosi. Workshop di scrittura, lettura condivisa, dialoghi su testi poetici e autobiografie di malattia potrebbero diventare luoghi di apprendimento affettivo e relazionale. È lì che il futuro medico può allenare la propria sensibilità, riconoscendo il potere trasformativo della parola e del silenzio.


Perché allora le medical humanities sono così poco presenti nella formazione medica?
Per due motivi. Il primo è che la formazione medica è ancora fortemente centrata sull’acquisizione di conoscenze tecnico-scientifiche. Gli studenti di medicina dedicano quasi tutto il loro tempo allo studio di materie cliniche, diagnostiche, terapeutiche. Questo rende difficile coltivare l’interesse per le discipline umanistiche, che vengono percepite come marginali o “accessorie”. Il secondo motivo è che, una volta conclusa l’università, i giovani medici entrano subito in un mondo professionale frenetico: specializzazione, turni, responsabilità. In questo contesto, diventa ancora più difficile ritagliarsi uno spazio per la lettura, la riflessione, la formazione culturale. Eppure, proprio lì — in quello spazio che oggi manca — si allenano lo sguardo, l’ascolto, la presenza. È lì che si impara a vedere il paziente non come un caso, ma come una storia da abitare.

La rivista il Punto.it, di cui lei è direttore scientifico, sembra riflettere proprio questa visione di una medicina aperta al dialogo con altri saperi. È così?
Sì, il Punto.it è nata con il desiderio di restituire al medico uno sguardo più ampio. Non è una rivista tecnica, né solo di attualità sanitaria. È uno spazio in cui proviamo a intrecciare la medicina con la cultura, la politica, la pedagogia, la filosofia, la letteratura. Una rivista per chi crede che il medico non debba solo aggiornarsi su linee guida e protocolli, ma anche formarsi come cittadino e come persona. Pensiamo che la medicina abbia bisogno di aprirsi, di mettersi in discussione, di interrogarsi su ciò che accade dentro e fuori l’ospedale. La competenza clinica è fondamentale, ma non basta: serve anche uno sguardo critico, etico, empatico. In questo senso, il Punto.it interpreta – anche se solo in parte – quell’idea di formazione interdisciplinare che vorremmo più presente nei percorsi educativi: una formazione capace di dialogare con il mondo, di nutrirsi di pensiero, di interrogarsi sul senso della cura.

Pensa che il suo concetto di estetica della cura sia un’utopia oggi?
In un sistema che chiede velocità, efficienza e prestazioni misurabili, parlare di estetica della cura può sembrare fuori luogo. Ma non lo è. È un modo per ricordare che curare non significa solo intervenire, ma esserci, con attenzione e rispetto. Come scrive Victor Montori, la medicina ha senso solo quando si fa atto di presenza autentica. Non servono grandi gesti. A volte basta non sprecare l’incontro. Essere lì. Guardare. Ascoltare. Ricordare. Forse è questo, oggi, il segno più concreto di una medicina che ha ancora il coraggio di essere umana.

Rosa Revellino 

Libri consigliati:

(Grazie all’affiliazione Amazon riconosce una piccola percentuale ad Artribune sui vostri acquisti) 

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati