Lo strappo sublime. L’editoriale di Marcello Faletra
Da segno di povertà, lo strappo sui pantaloni è diventato un segno di distinzione. In mancanza di un’esperienza forte della vita, si gioca alla simulazione. E intanto chi se li strappa davvero, lo rispediamo indietro, “a casa sua”.
Strappi, squarci, sfilacciamenti della trama. Sono l’immagine dei jeans più venduti, divenuti una delle forme di apparizione più seguite dai giovani. Ma anche i jeans macchiati di fango su ginocchia, tasche e caviglie, che arrivano a costare oltre 400 dollari. Sporchi e miserabili, è l’ultima frontiera della moda. Una famosa marca ha ben pensato di arrotolare i jeans intorno a dei pneumatici e farli mordere da tigri e leoni, finché non sono ben lacerati.
Siamo di fronte alla vocazione all’attualità della violenza, che si fa omeopatica: conviverci, incorporandone i segni. Da segno di povertà, lo strappo è ora segno di distinzione e godimento. In mancanza di un’esperienza forte della vita, ecco i segni simulati dell’usura, le ferite della miseria, i brandelli di vissuto, che trasforma coloro che indossano questi jeans lacerati in un simulacro di eroi. Ieri la donna, i negri e il corpo furono indirettamente solidali nella schiavitù: emancipazione della donna e del corpo sono storicamente inseparabili. Dopo millenni di schiavitù, la donna e il corpo (incarnazione di una virtualità rivoluzionaria) sono ricondotti nel recinto di un’emancipazione formale, che è quella dei segni.
“Dopo millenni di schiavitù, la donna e il corpo (incarnazione di una virtualità rivoluzionaria) sono ricondotti nel recinto di un’emancipazione formale, che è quella dei segni”.
Nel 1759 Burke, autore della famosa Ricerca sull’origine delle idee del sublime e del bello, integra il suo trattato con un paragrafo sulla descrizione dello squartamento pubblico di Robert-François Damiens. Si tratta di una dettagliata descrizione di quell’esecuzione, dove due gruppi di cavalli, a cui è legato il corpo della vittima, muovono in senso opposto, fino allo strappo degli arti. Questa descrizione sarà ripresa da Foucault in Sorvegliare e punire. Lo spettacolo del terrore era l’ultimo capitolo di un’estetica del sublime a venire. Spettacolo, eccesso, ferocia: per Burke erano gli esiti ultimi del sublime.
Molto tempo dopo Jacques Lacan mutuerà il sublime nell’impossibilità di fare un’esperienza reale: il reale può dirsi solo nell’impossibile, come il sublime, la cui traduzione di massa, oggi, sono i jeans morsicati dai leoni e indossati come un rituale feticista. Si tratta di indossare le tracce di un corpo lacerato, indossare la violenza per procura. D’altra parte, in questo culto dell’estremo sembra non esservi nessuna pietà per i disperati in carne e ossa, contro cui si fa di tutto per respingerli fuori da “casa nostra”, e che ci appaiono come spettri con il cumulo delle loro disgrazie. Ci appaiono con gli strappi reali: quelli della violenza subita.
Come osserva Slavoj Žižek, questa estetica della violenza non è che “la forma più estrema dell’ideologia [che] consiste nell’impantanarsi nella sua spettralità, dimenticandosi del fatto che essa si fonda su persone reali”.
‒ Marcello Faletra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #39
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