Alla Scala di Milano la storia della grande poetessa russa Anna Achmatova
La nuova opera, commissionata alla più eseguita compositrice italiana, attraversa la Storia della Russia del ‘900 e dei suoi intellettuali raccontando il conflitto tra arte e potere
Diciassette mesi in un piazzale freddo, tra gli ululati delle madri, delle mogli e delle sorelle dei prigionieri politici della purga stalinista, con il solo conforto della reciproca testimonianza. “Ma lei questo lo può raccontare?” – “Posso“. E così quei diciassette mesi fuori dalle porte del carcere Le Croci di Leningrado diventano una raccolta di poesie, una delle più importanti della letteratura russa contemporanea. Da questo calvario, in cui si manifesta lo spirito delle donne e della Russia tutta, prende le mosse Anna A., una nuova opera teatrale che in un un unico atto va a raccontare, tra musica e parole, la storia di Anna Andreevna Gorenko (1889-1966), la poetessa e intellettuale russa meglio nota come Anna Achmatova.
Anna A. al Teatro alla Scala di Milano
L’opera, che ha debuttato al Teatro alla Scala di Milano e che vi resta fino al 2 dicembre 2025, è una nuova incursione del tempio dell’opera milanese nel teatro contemporaneo dopo il successo de Il nome della rosa. Commissionata alla più eseguita compositrice italiana, Silvia Colasanti, la pièce è stata elaborata (attraverso documenti storici, citazioni e testi poetici) con lo slavista Paolo Nori, autore del libretto, lungo due direttive: quella del “presente”, che vede la poetessa ormai anziana ricoverata nel sanatorio di Domodedovo con l’amica Lidija Čukovskaja, e quella dei ricordi. Dal 1966, quando conosciamo Anna, si risale al 1911 andando a seguire la sua ascesa letteraria e la parallela catabasi della scena intellettuale russa sotto le repressioni staliniste.
La scenografia di Anna A. tra passato e presente
L’escamotage per questa dinamica di alternanza tra realtà e ricordo, che da un evento più o meno traumatico all’altro ci fa risalire il Secolo Breve con l’aiuto delle liriche della protagonista, è una suggestiva boîte semi-trasparente. All’interno di questo contenitore bianco, grande più di metà del palco e diviso in stanze ideali, si muovono, cantano e danzano l’Anna del passato, il figlio Lev e i mariti – vediamo il primo, morto fucilato, che la incoraggia nella scrittura, e il terzo, distrutto dalla prigionia e dai campi di lavoro – e le varie sorti degli amici intellettuali, chi fuggito e chi rimasto a soccombere: dallo sfortunato Mandel’štam al Nobel Pasternak, dalla grande Cvetaeva al premonitore Bulgakov, il gotha del pensiero russo è tutto qui. Presente e passato si alternano e si confondono, complici le fotografie e i video proiettati al di sopra della scatola, che mescolano fotografie storiche e video degli interpreti.
Arte e potere nel dramma Anna A.
È lo stesso Bulgakov, padre de Il maestro e Margherita, a introdurre uno dei grandi temi del dramma: il rapporto tra arte e potere. “Stalin legge tutto: legge i nostri romanzi, legge i nostri racconti, le vostre poesie e legge anche le mie” – “Voi non scrivete poesie!” – “Ma le ho pensate, me le ha lette in testa. Legge le poesie stampate e non stampate, scarabocchiate o solo immaginate”. E così si prepara il pubblico all’ingresso in scena dell’incarnazione del Potere, che con le mani sporche di sangue segue dall’inizio i protagonisti e ora esce allo scoperto con un monologo cantato (ispirato al Grande Inquisitore dei Fratelli Karamazov di Dostoevskij) e ricorda al pubblico l’inutile rischio del libero pensiero.
Inutile, è tentata di pensarlo la stessa Anna, a fronte di tutte le morti e il dolore che ancora la consumano a decenni di distanza. Nell’attesa del figlio Lev, che le recrimina quindici anni passati in prigione, arriva l’alba di un nuovo giorno, e con lui la morte: Anna solca il confine tra realtà e sogno, tornando col pensiero a quel piazzale gelido dove oggi si staglia il monumento a lei dedicato.
Giulia Giaume
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati