Intervista a Virgilio Villoresi sul suo “Orfeo”: il cinema che torna fantasmagoria

Dal nome che sembra un presagio alla casa di produzione Fantasmagoria, fino a "Orfeo" (presentato Fuori Concorso a Venezia): Virgilio Villoresi racconta il suo cinema artigianale e visionario, sospeso tra advertising, rituale e aldilà

Orfeo è un debutto che sembra arrivare da una fenditura nel tempo: un lungometraggio di 74 minuti, italiano, prodotto da Fantasmagoria, presentato Fuori Concorso alla 82ª Mostra del Cinema di Venezia. 
Dietro c’è Virgilio Villoresi: regista e “artigiano” dell’immagine in movimento, con un metodo che rimette al centro la fabbrica dei trucchi, l’illusione dichiarata, la manualità come scelta estetica. In questa intervista si parla di nomi che diventano destino, di fantasmi evocati con vetri e riflessi, di cinema sperimentale come iniziazione, e di un’idea radicale: il cinema non come linguaggio, ma come padre simbolico. 

Intervista a Virgilio Villoresi 

Partiamo subito dal tuo nome — un nome che pesa come un presagio. “Virgilio”: guida, traghettatore, poeta dell’oltre. È inevitabile chiederti: perché questo nome? Anche i tuoi, come i genitori di Leonardo DiCaprio durante quel famoso viaggio a Firenze, si sono innamorati di un genio rinascimentale? O, essendo tu fiorentino, la storia si fa ancora più densa di mitologia? 
Il mio nome, Virgilio, lo devo a mio nonno, che però non ho mai conosciuto perché è venuto a mancare prima che io nascessi. Sono l’ultimo di una lunga serie di cugini: i fratelli e le sorelle di mia madre avevano già scelto altri nomi per i loro figli, così alla fine è toccato a me portare il nome di mio nonno, anche su desiderio profondo di mia nonna. Oggi mi piace pensare che ci fosse in questo nome una sorta di presagio perché forse solo qualcuno che si chiamasse così poteva raccontare fare questo film (ride, ndr.).

Virgilio Villoresi all'82° Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia
Virgilio Villoresi all’82° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia

Una parola che ti definisce — e che non ho paura di usare — è “fantasmagorico”. Non solo per l’immaginario che evochi, ma perché è proprio il nome della tua casa di produzione. Un nome che sembra uscito da Méliès o dai primi esperimenti del cinema delle attrazioni. Raccontami: da dove nasce questa parola-totem? Che cos’è, per te, la fantasmagoria? 
Fantasmagoria nasce dalla mia passione per un artista straordinario: Gaspard Robertson. Le sue Fantasmagorie, messe in scena tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, sono state per me oggetto di studio e di fascinazione profonda. In alcuni volumi antichi ho trovato dei bozzetti che descrivono i suoi effetti spettacolari, ottenuti grazie a ingegnosi giochi di riflessi su vetro. Nei sotterranei dei conventi parigini, attraverso proiezioni con lanterna magica su nuvole di zolfo, Robertson riusciva a evocare mostri e spettri fluttuanti, capaci di spaventare e incantare centinaia di persone. 
Ma non solo: in teatro, celava un grande vetro inclinato a 45 gradi lungo tutto il boccascena, nascosto tra le quinte. In questo modo faceva apparire figure spettrali che sembravano salire dal nulla e interagire con gli attori in scena. È un effetto che ho voluto omaggiare anche nel mio film, per far apparire Eura sotto forma di fantasma. 
Per me il cinema è, prima di tutto, un’esperienza di meraviglia, stupore… e Fantasmagoria. Ed è per questo che ho scelto questo nome per la mia casa di produzione.

Mi sono innamorato del tuo film perché, come tu stesso dici, è impastato di cinema classico e sperimentale, un connubio rarissimo da vedere così vivo oggi. Io ci ho sentito subito il respiro di Kenneth Anger — che ho avuto il piacere, direi quasi il “piacere diabolico”, di conoscere. Quel modo di filmare il desiderio, la ritualità, la luce come fosse carne. Quando è nato il tuo amore per questo tipo di cinema? Qual è stato il momento in cui hai capito che la tua casa estetica non era nel realismo, ma in un territorio più liminale, più magico? 
A diciassette anni ho scoperto Meshes of the Afternoon di Maya Deren, e da quel momento non mi sono più staccato dal cinema sperimentale. È stata una rivelazione che ha segnato per sempre il mio sguardo. Poi, naturalmente, artisti come Jean Cocteau hanno avuto un’influenza profonda su di me, non solo dal punto di vista estetico, ma anche per l’attitudine, il coraggio visionario con cui affrontavano il mezzo cinematografico… 
Credo di aver trovato la forza di realizzare Orfeo anche grazie all’amore che nutro per il cinema di Cocteau, che, tra l’altro, era molto apprezzato anche da Kenneth Anger. Di Anger ho assorbito soprattutto la capacità di muoversi su territori percettivi più alti, fino a toccare la spiritualità del cinema. In alcune scene di Orfeo — penso alla sala della Giacca o a certi momenti nell’aldilà — ho sentito anch’io la libertà di varcare quella soglia. È stato anche grazie ad Anger se ho avuto la spinta per esplorare zone più profonde, più misteriose, quasi rituali del linguaggio cinematografico. 

Molti grandi registi hanno abitato la frontiera tra advertising e arte. Penso a Andy Warhol, a Maurizio Cattelan, ma nel nostro campo il nome più cristallino è Jonathan Glazer, che con Under the Skin e The Zone of Interest ha scritto due capitoli fondamentali del cinema contemporaneo.Nel tuo CV ci sono più di duecento lavori (correggimi pure) per brand di primissima fascia. Secondo te come si intreccia — o “matcha”, come dici tu — la disciplina chirurgica del pubblicitario con la deriva poetica dell’artista? Come si sopravvive a questo doppio registro senza perdere la propria voce? 
Sicuramente il mondo dell’advertising è stato per me un importante spazio di sperimentazione. Quando i clienti mi chiedevano di imprimere il mio stile e la mia firma visiva ai progetti, spesso mi veniva data carta bianca. Questo mi ha permesso di osare, di provare soluzioni nuove anche per me stesso, e di filtrare le mie passioni per il cinema, per l’animazione, per autori come Norman McLaren, attraverso il mio immaginario e il mio modo di concepire la messa in scena. 
In fondo è stata una vera e propria palestra tecnica: ho potuto affinare competenze nella regia, nella costruzione scenografica, nell’animazione, nel montaggio e nel sound design. Tutte competenze che poi ho riversato in Orfeo, dove però ho potuto spingermi oltre, toccando corde più intime e profonde. Perché, a differenza della pubblicità, il cinema ti consente di raccontare ciò che ti abita dentro, e di farlo con una libertà immaginifica totale. 

Tu hai definito il tuo film Orfeo come un riferimento al cinema stesso: la tua Finestra sul cortile, il tuo omaggio personale al grande immaginario che ti ha formato. Da Mario Bava a Kenneth Anger, passando per Fellini — una costellazione pericolosa da abitare.Lo descrivi come un’incitazione alla meraviglia, allo spaesamento, allo stupore. Ma non avevi paura di smarrirti? Di perdere il filo nel labirinto delle tue stesse influenze?
Con Orfeo mi sono sicuramente spinto molto in alto, e sapevo bene che questo comportava dei rischi, come accade spesso con film di questa natura. Il pericolo di smarrirsi, di perdere la bussola lungo il cammino, era reale. Ma credo che proprio il fatto di aver curato personalmente il montaggio sia stato determinante per mantenere una coerenza interna, un filo conduttore che legasse ogni elemento. Il montaggio, infatti, è stato un processo cruciale: mi ha permesso di preservare quell’equilibrio sottile tra meraviglia e stupore, tra artigianalità e rigore formale, tra suggestioni del cinema classico e derive più stratificate e sperimentali. È attraverso il ritmo e la costruzione narrativa che, a mio avviso, l’intera operazione ha trovato la sua armonia. 

Aggiungo che Orfeo è anche un inno all’arte. E allora te lo chiedo con tutta la semplicità possibile: che cos’è l’arte per te? Una necessità? Una ferita? Una resurrezione?
Per me l’arte deve possedere la forza di farti smarrire nello stupore, nella meraviglia. Deve penetrarti in profondità, scuoterti dall’interno, farti dimenticare per un attimo di esistere, fino quasi a distruggerti emotivamente, ma in senso positivo, rigenerante. 
L’arte autentica ha questo potere: travolgerti con la sua bellezza e trasportarti in uno stato di grazia, riportandoti a una forma di spiritualità primordiale, fanciullesca. Quella meraviglia pura che provavamo da bambini, quando ogni cosa era scoperta, incanto, mistero. Uno dei miei maestri — il pittore Enzo Cucchi — mentre giravo un documentario su di lui, mi disse una frase che non ho mai dimenticato: “L’arte asciuga le lacrime di Dio”. 

Ti risuona? 
Sì, è una bellissima definizione, che sento molto vicina al mio modo di intendere l’arte. Credo anch’io che l’arte debba aprire uno squarcio dentro di noi, un “trauma”, appunto, uno spazio interiore inaspettato. Deve creare un’apertura che ci rende vulnerabili, ma allo stesso tempo ci riconnette a qualcosa di profondo. 
L’arte autentica non si limita a essere ammirata: ti attraversa, ti abita, ti trasforma. Ti riporta a quella meraviglia antica, quasi dimenticata, che è la soglia della nostra umanità più vera. 

È possibile che l’arte sia proprio questo: un modo per colmare un’assenza, un padre mai conosciuto, una mancanza originaria? O per te è qualcosa di completamente diverso? 
Sì, direi che hai colto nel segno. Mio padre non mi ha mai riconosciuto, e in un certo senso fare arte è diventato per me un modo per affermare la mia esistenza, prima di tutto nei suoi confronti, ma anche verso il mondo. Come se, attraverso l’arte, potessi dire: “Esisto. Eccomi.” Perché, in fondo, lui aveva tentato di cancellarmi, di nascondermi. 
Da questa ferita nasce sicuramente una parte della mia forza e della mia determinazione nel creare qualcosa che lasci un segno. Il cinema, in particolare, è stato per me molto più di una passione: è diventato una figura genitoriale, un padre simbolico che mi ha accompagnato nella crescita, che mi ha formato sotto ogni punto di vista, umano, estetico, emotivo. È per questo che oggi sento un senso profondo di devozione verso il cinema, come se fosse una vera e propria religione. E attraverso i miei film, cerco di donare qualcosa di autentico, di straordinario, come fosse un atto d’amore e di restituzione a questa settima arte che mi ha salvato. 

Alessandro Asciutto 

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