In che modo il cinema sta raccontando l’integrazione culturale?
Dalla nuova serie Rai Fiction “L’Appartamento - Sold Out” nasce l’occasione per una riflessione più ampia su come il cinema degli ultimi anni racconti migrazione e convivenza. Un percorso che attraversa frontiere geografiche ma soprattutto confini interiori
Il tema dell’integrazione è oggi uno dei nodi più urgenti del dibattito culturale europeo. Non più un argomento “di contorno”, ma una lente attraverso cui guardare alle trasformazioni sociali, al senso di appartenenza, alla paura della diversità.
La nuova serie Rai “L’Appartamento – Sold Out”
La nuova serie L’Appartamento – Sold Out”, diretta da Giulio Manfredonia e Francesco Apolloni, dal 28 novembre su RaiPlay, si inserisce in questo contesto: una convivenza forzata tra tre coppie diverse per cultura, religione, età e provenienza diventa il pretesto per rappresentare la casa come spazio politico. Ma è soprattutto il cinema contemporaneo, negli ultimi anni, ad aver costruito un vero e proprio atlante emotivo sul tema dell’’integrazione, restituendo sfumature e complessità che la cronaca spesso appiattisce.

Migrazione e identità: il viaggio dentro se stessi attraverso il cinema
Alcuni film scelgono di raccontare la migrazione non come la cronaca di un viaggio, ma come esperienza interiore che ridefinisce i confini di sé. Limbo (2020) di Ben Sharrock ne è forse l’esempio più limpido: un gruppo di rifugiati bloccati su un’isola scozzese vive in un tempo sospeso tra un passato che non c’è più e un futuro che non arriva mai. È un film lieve e tragico allo stesso tempo, che svela l’assurdità burocratica e psicologica dell’attesa. In Minari (2020) di Lee Isaac Chung, vincitore del premio della giuria al Sundance, l’integrazione assume la forma di una ricerca di nuove radici. Anni Ottanta: una famiglia coreano-americana decide di trasferirsi dalla California all’Arkansas, trasformando il sogno di una vita migliore in un percorso di fragilità. Qui il conflitto non è solo culturale: è generazionale, linguistico, affettivo. Con Drift (2023), film di Anthony Chen con Cynthia Erivo, lo sguardo si sposta sulla ferita ancora aperta del trauma: una giovane rifugiata liberiana approda su un’isola greca, dove il mare non è più confine ma memoria che ritorna. Il film interroga il corpo che sopravvive e cerca di ricomporsi imparando lentamente a fidarsi di nuovo dell’altro. E poi c’è Fremont (2023) di Babak Jalali con Anaita Wali Zada e Jeremy Allen White, in cui un’ex interprete afghana vive in una comunità di espatriati in California: la sua quotidianità è fatta di silenzi e lavori precari. L’integrazione non è dramma, ma una serie di piccole negoziazioni emotive. È un film che parla piano e che proprio per questo arriva lontano.
Ospitalità contesa: quando l’incontro diventa conflitto
Accanto a questi percorsi, altri film hanno scelto di mostrare la frattura sociale che l’arrivo dell’altro porta con sé. Tori et Lokita (2022) dei due registi Jean-Pierre e Luc Dardenne, racconta come l’amicizia tra due giovani migranti in Belgio, diventi un gesto di resistenza contro un sistema che li considera invisibili. Il film non cerca consolazioni, ma una verità che brucia. Più politico e comunitario è The Old Oak (2023) di Ken Loach, ambientato in un ex villaggio minerario inglese dove l’arrivo di profughi siriani fa esplodere tensioni latenti. Loach indaga le paure sedimentate, ma anche le possibilità di un’alleanza inattesa: la comunità ferita che incontra un’altra comunità ferita. La domanda implicita è semplice e radicale: come si costruisce un “noi” quando nessuno si sente più a casa? Ed è proprio intorno a questa domanda che si può leggere anche L’appartamento sold out, che pur con toni più leggeri affronta le stesse questioni: vivere insieme non è un ideale astratto, ma un esercizio quotidiano di reciprocità. La serie, con il suo microcosmo di culture, restituisce il senso concreto dell’incontro, mostrando che l’integrazione non è mai un processo lineare ma un equilibrio provvisorio, sempre da reinventare.
Gaia Rotili
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