Il cinema “statico” in mostra a Venezia durante la Biennale
Una mostra fotografica esplora il confine tra cinema e fotografia, fermando il tempo dell’immagine in movimento in un istante infinito

Che cosa accade quando il cinema smette di scorrere e il fotogramma diventa immagine autonoma? L’opera fotografica non è semplice frammento, ma campo narrativo in cui l’azione si arresta per rivelare nuove dimensioni percettive. Se Gilles Deleuze definiva il cinema come “immagine-movimento”, valorizzare l’immagine “statica” ribalta questa visione interrogando il valore dell’attimo sospeso. È in questo spazio concettuale che si colloca la mostra Static Cinema, una riflessione sulla natura del tempo congelato, sul paradosso di un movimento che sopravvive nell’immobilità fotografica.
Curata da Danila Tkachenko e Slavica Veselinović e allestita negli spazi di Crea – Cantieri del Contemporaneo alla Giudecca fino al prossimo 24 settembre, la rassegna non a caso prende vita durante la Mostra del Cinema, quando Venezia interroga il linguaggio audiovisivo: mentre il grande schermo celebra la continuità delle immagini, Static Cinema ne rivela la potenza silenziosa nell’istante immobile. “In questo senso”, spiega il curatore Danila Tkachenko, “l’immagine statica non è un opposto del movimento, ma una sua forma parallela di esistenza, uno spazio in cui il movimento rallenta, si dispiega nella pausa, diventando percezione”. Inoltre, l’immagine statica, prosegue Tkachenko, “non copia semplicemente la realtà cinematografica, ma modella una nuova forma di esperienza visiva che va oltre la percezione tradizionale del tempo e della narrazione”.
Jon Rafman, tra visione digitale e ferita psicoanalitica
Tra i nomi in mostra spiccano Jon Rafman e Antoine d’Agata, due artisti che incarnano opposte ma complementari visioni del tempo sospeso. Il new media artist canadese Rafman, con A Man Digging, crea un ambiente meditativo in cui il corpo diventa simbolo trascendentale, immerso in una dimensione quasi virtuale, frutto della sua ricerca sulla condizione contemporanea. D’Agata, invece, con il suo approccio carnale e psicoanalitico, decelera il movimento fino a renderlo pulsazione interiore: eros, ossessione e trauma si condensano nell’immagine statica, trasformata in esperienza emotiva pura. Se Rafman sospende il tempo per generare uno spazio di contemplazione, d’Agata lo lacera, facendone emergere la violenza e l’urgenza. La fotografia diventa così, per entrambi, non semplice arresto del flusso, ma veicolo di trasformazione percettiva e affettiva.

Roger Ballen e Lars von Trier: il fotogramma come teatro sospeso
Roger Ballen e Lars von Trier offrono al pubblico due diversi modi di intendere l’immagine statica come scena drammatica. Ballen, con i suoi scenari disturbanti e simbolici, costruisce fotografie che sembrano frame di un film invisibile: opere che catturano lo spettatore in narrazioni sospese, mai pienamente risolte. Il fotogramma da Nymphomaniac di von Trier, invece, privo della sequenza che lo contestualizza, rivela tutta la sua forza autonoma: un’immagine che da documento narrativo si trasforma in quadro, carico di ambiguità e tensione. Entrambi, pur da prospettive differenti, mostrano come l’immagine statica possa racchiudere il pathos del cinema, liberato dalla necessità di scorrere, e trasformarsi in un campo di intensità drammatiche che vivono nell’occhio di chi guarda.

Il ritratto come memoria cinematografica
La sezione dedicata ai ritratti mette in dialogo il lavoro di Mark Seliger e Graziano Arici. Seliger, storico fotografo di Rolling Stone, presenta un ritratto di Cindy Sherman, artista che ha fatto della metamorfosi identitaria il proprio linguaggio: qui la fotografia diventa specchio di un cinema dell’identità, riflessione sulla costruzione del sé. Arici, fotografo ufficiale della Mostra del Cinema per decenni, porta in mostra un archivio che intreccia mezzo secolo di volti e storie, trasformando il documento in icona e fissando nel tempo la memoria collettiva del festival. In entrambi i casi la fotografia non si limita a congelare, ma evoca, allude, restituisce movimento attraverso la memoria e la trasformazione. Così Static Cinema ribadisce la sua missione: non fermare il cinema, ma reinventarlo, restituendo a ogni immagine il potere di contenere un mondo.
Laura Cocciolillo
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