A Vienna c’è il festival di arte digitale più interessante del momento. Intervista al curatore
Curatore visionario e direttore dell’Autotelic Foundation, Nadim Samman guida a Vienna il Digital Cultures Festival che è un laboratorio critico dove arte e tecnologia sfidano la semplificazione e danno spazio all’opacità, alla complessità, alla resistenza. Ecco l’intervista

C’è chi concepisce la curatela come gestione, mediazione o promozione. E poi c’è Nadim Samman: curatore, critico e pensatore radicale, una delle figure più lucide nel panorama dell’arte contemporanea digitale. Con una formazione che unisce filosofia, ecologia e arte, ha diretto progetti di grande impatto in tutto il mondo; dalle biennali a Berlino e Mosca, alla direzione dell’Autotelic Foundation, una piattaforma che esplora pratiche artistiche non strumentali e spesso refrattarie alla semplificazione.
Oggi, Samman è anche la mente dietro il Vienna Digital Cultures Festival, rassegna emergente ma già imprescindibile che abita lo spazio dove arte, tecnologia e critica sociale si intrecciano. A Vienna, il festival trasforma la città in un laboratorio vivo di estetiche digitali non convenzionali: in mostra opere e interventi di artisti come Arvida Byström, Caroline Busta, Silvia Dal Dosso e Kate Crawford, che mettono in discussione i dispositivi stessi del nostro tempo – la visibilità, l’interattività, l’intelligenza artificiale, l’infrastruttura nascosta. Il tema inaugurale, Model Collapse, ci invita a riflettere: siamo nel pieno di un collasso dei sistemi – politici, economici, ecologici, cognitivi – e la tecnologia, in particolare l’intelligenza artificiale, non è spettatrice, ma protagonista. Abbiamo intervistato Samman per farci raccontare come si costruisce uno spazio dove l’arte digitale può essere autonoma, opaca, complessa – e per questo ancora più necessaria.

Intervista al curatore Nadim Samman
Nella sua pratica curatoriale con l’Autotelic Foundation e il Vienna Digital Cultures Festival, sembra resistere alla tentazione di strumentalizzare l’arte in narrazioni sociali o tecnologiche facilmente digeribili. Come gestisce la tensione tra la natura opaca, autotelica di alcune opere e la richiesta di accessibilità o leggibilità in grandi mostre digitali?
Non sono contrario all’accessibilità, ma mi interessa mettere in discussione l’idea che l’accessibilità implichi necessariamente semplificazione o chiusura narrativa. La parola autotelica – arte per se stessa – ci ricorda che alcune opere traggono forza proprio dal rifiutare la leggibilità, soprattutto nel contesto della cultura digitale, dove tutto dev’essere veloce, comprensibile, condivisibile. In questo senso, l’opacità può diventare una forma di resistenza.
Come coniuga quindi l’esigenza di chiarezza con la natura opaca di questi lavori?
Mi rendo conto che le grandi mostre richiedono un certo grado di chiarezza – logistica, educativa, esperienziale; così, per affrontare questa sfida, cerco di spostare il quadro curatoriale: invece di “spiegare” l’opera, costruisco attorno ad essa un’impalcatura. Progetto narrazioni spaziali che stimolino un’interazione incarnata, commissiono testi che aprano percorsi interpretativi molteplici, e lascio che il pubblico incontri la complessità in modo graduale. Sia l’Autotelic Foundation che Vienna Digital Cultures investono nella creazione di spazi per opere che non si lasciano ridurre a un messaggio unico, a una posizione politica, o a un effetto tecnologico d’impatto. Il compito del curatore non è decodificare o rendere “addomesticate” le opere, ma coltivare un’ecologia in cui la difficoltà non è un difetto, ma un invito: a rallentare, riflettere, tornare a interrogarsi.







Il termine autotelico suggerisce una logica o finalità interna che resiste a giustificazioni esterne. In un’ecologia digitale dominata da metriche, ottimizzazione e visibilità, come crea condizioni curatoriali che proteggano – o persino producano – questo tipo di autonomia artistica?
La cultura digitale aziendale è strutturata attorno alla visibilità, ai dati e a cicli di ricompensa che appiattiscono la complessità. L’opera autotelica – che insiste sulla propria logica interna – appare quasi deviante in un tale sistema. Ma per me la curatela è una forma di resistenza infrastrutturale: in termini pratici, significa agire “a monte”, fin dal momento della commissione.
Nella pratica artistica e curatoriale, come si pone nei confronti degli artisti?
Scelgo consapevolmente di offrire agli artisti tempo e libertà non solo per produrre risultati, ma per esplorare domande che non si risolvono facilmente, né si allineano alle narrazioni sociali dominanti o alle tecnologie di tendenza. Nell’allestimento evito cornici troppo didattiche o l’urgenza di “spiegare”. Mi concentro invece sulla drammaturgia – mettere in scena esperienze che permettano al pubblico di incontrare l’opera secondo i suoi tempi, anche senza sapere subito cosa “dovrebbero” sentire o pensare. È un atto etico: difendere il diritto dell’arte ad essere complessa, generativa, o persino silenziosa.
L’arte digitale nella visione di Nadim Samman
L’arte digitale è spesso percepita come orientata al futuro, ma molti suoi progetti riflettono su memoria, entropia e decadimento. Come concilia questa dimensione con l’imperativo culturale che associa il “digitale” alla “novità”?
I sistemi digitali vengono immaginati come puliti, veloci, aggiornabili all’infinito – ma in realtà decadono. I formati diventano obsoleti. I link si interrompono. Il codice si rompe. I server falliscono. Il “digitale” non è immune al tempo: ne è saturo. La cosiddetta “novità” del digitale è un mito – una costruzione del marketing. Come curatore, parte del mio lavoro è interrompere questo mito e ampliare il campo temporale. Mostrare che il digitale può anche essere uno spazio di ritorno, di fantasmi, di lenta scomparsa. Mettere in primo piano entropia e memoria ci permette non solo di raccontare storie più ricche, ma anche di porre domande più difficili su ciò che sopravvive, chi archivia, e cosa perdiamo quando confondiamo progresso tecnologico con progresso culturale.
Le capacità immersive e interattive dell’arte digitale sono spesso celebrate, ma rischiano di rafforzare una fantasia neoliberale di agenzia illimitata. Pensa che il rifiuto, l’opacità o l’attrito possano essere adoperati come strategie curatoriali?
Non sono contrario allo spettacolo, ma ne diffido. Lo spettacolo può essere seducente, perfino produttivo – attira, disorienta, genera intensità affettiva. Ma rischia anche di azzerare la distanza critica. Nell’arte digitale, soprattutto nei formati immersivi o interattivi, c’è spesso una promessa implicita: che lo spettatore sia in controllo, che partecipare significhi avere potere. Questa è una fantasia profondamente neoliberale – confonde l’interfaccia con l’agenzia.
Può dirci di più?
Come curatore, mi interessa maggiormente ciò che accade quando questa promessa viene infranta o sospesa. Rifiuto, opacità e attrito sono strumenti utili per perforare la levigatezza di questi sistemi. Ricordano che non tutto è disponibile per il consumo immediato, che l’accesso non equivale sempre all’empowerment, e che a volte il significato viene rimandato, o persino negato. Questo implica anche ripensare l’architettura espositiva e il ritmo: possiamo creare momenti di pausa, di sovraccarico, di illeggibilità? Possiamo mettere in scena opere che chiedono allo spettatore di rinunciare al controllo, anziché esercitarlo?




Con l’ascesa della curatela algoritmica nei social media, come posiziona la sua pratica in contrasto o in dialogo con questi sistemi automatici di attenzione?
Innanzitutto, non mi sento minacciato dall’automazione. Non sono un motore di selezione. Non sono uno scraper. Non devo offrire una rassegna “bilanciata”. Io collaboro con artisti. Il mio lavoro nasce da relazioni, non da dati. La curatela algoritmica opera seguendo pattern di coinvolgimento pregresso – amplifica ciò che è già leggibile, già performante. Ma gli artisti, soprattutto quelli che lavorano ai margini del digitale, spesso cercano proprio di rendere visibile l’illeggibile, o di far sentire strani i meccanismi dominanti. Questo non è qualcosa che un algoritmo può rilevare o premiare, perché non è ancora successo in modo riconoscibile per il sistema.
Quindi, qual è il suo ruolo e che modus operandi adotta?
Il mio ruolo è creare le condizioni dove la divergenza non solo è possibile, ma è prioritaria. Significa sostenere opere che non “trenderanno” mai, e che forse respingeranno l’engagement iniziale proprio perché non si conformano ai codici della fluency digitale. Non voglio tornare nostalgicamente a un’autorità pre-digitale. Questi sistemi sono il nostro contesto. Il punto non è se usarli, ma come, e a quali condizioni. Trattiamo le piattaforme non come palcoscenici neutri ma come materiali curatoriali – luoghi di intervento, non solo di diffusione. Non mi interessa competere per l’attenzione, ma trasformare ciò che attenzione può significare: non riconoscimento istantaneo, ma incontro prolungato. Non viralità, ma risonanza. È qui che la curatela umana ha ancora – e sempre avrà – un ruolo fondamentale.
L’arte digitale spesso sfuma i confini tra simulazione e incarnazione, spettacolo e infrastruttura. Come curatore, quale responsabilità sente di avere nell’evidenziare il lavoro nascosto, le materialità e le ecologie che sostengono il sublime digitale?
Il sublime digitale, con tutta la sua meraviglia immersiva e la sua intensità emotiva, si basa spesso su infrastrutture materiali e umane che restano volutamente invisibili: data center con enormi consumi energetici, filiere globali, lavoro sfruttato nella moderazione dei contenuti o nell’etichettatura dei dati, persino i corpi dietro i gesti codificati come “interazione”. Come curatore, sento il compito di disturbare questa seduzione della superficie. Non per moralizzare, ma per includere le condizioni di produzione nel quadro della ricezione. Questo può voler dire mettere in evidenza l’impalcatura tecnica dell’opera – mostrare cavi, latenze, dipendenze. Oppure far emergere il lavoro normalmente cancellato dall’estetica digitale: le ore di scrittura del codice, i corpi nei motion capture, le economie emotive e materiali delle piattaforme collaborative.
Oltre a quelli citati, ci sono altri aspetti dell’arte digitale che cerca di far emergere?
Sì certo. Mi interessa anche rendere visibile l’impatto ambientale dell’arte digitale. Il linguaggio del “cloud” è volutamente disincarnato, ma nulla nel digitale è immateriale. Naturalmente, non tutte le opere sono critiche. Alcune parlano di gioia, immersione, sperimentazione formale. Ma anche in quei casi, mi chiedo: quali infrastrutture rendono possibile questo momento? Chi – o cosa – resta invisibile? Non è un modo per sminuire l’arte, ma per arricchirne il contesto. Per chiedere allo spettatore di guardare di nuovo – non solo lo schermo, ma il mondo che lo sostiene.
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Laura Cocciolillo
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