Ricamare potere e vulnerabilità sul bordo di un fez con l’artista Camille Eskell
Trasforma il fez da simbolo patriarcale a strumento di rivalsa femminile l’artista statunitense Camille Eskell. L’abbiamo intervistata per entrare nella sua pratica, fatta di radici, spostamenti e rilettura dei sitemi di potere
Quando entri nel mondo di Camille Eskell (USA, 1954) non entri solo in una mostra. Entri in una storia di generazioni raccontata dal punto di vista di chi per molto tempo ha parlato sottovoce. Prima generazione americana, cresciuta in una famiglia ebraica irachena approdata a New York passando dall’India, Eskell intreccia memoria, desiderio di appartenenza e uno sguardo femminista in un lavoro che attraversa scultura, collage digitale, pittura e installazione.
Oggi espone regolarmente negli Stati Uniti e all’estero, dal ciclo sulla “plight of the fez-maker’s daughter” fino alla recente personale One Thousand and One Threads alla galleria Kapow di New York. Il suo lavoro parla di patriarcato, migrazione, vulnerabilità e resistenza, con un linguaggio visivo meticoloso e sensuale che unisce la cura del dettaglio alla lucidità di chi non smette di interrogare il potere.

Intervista a Camille Eskell
Nel tuo racconto l’origine del lavoro è molto chiara: dici che tutto parte dalla paura. Che cosa intendi quando parli di “paura” come motore del tuo lavoro?
È iniziato negli Anni Ottanta chiedendomi semplicemente che cosa stessi provando, e perché. La risposta era spesso paura: di non valere abbastanza, di non avere voce, di essere messa da parte. Da lì ho cominciato a lavorare su stati psicologici, su sensazioni di essere cancellata, soppressa, trattenuta. Quel sentimento aveva naturalmente una dimensione femminista, ma non volevo fare slogan: volevo capire come certe emozioni si radicano nel corpo, nel linguaggio, nelle relazioni.
A un certo punto dici che psicologia, storia personale e storia culturale diventano “un’unica radice”. Come si è prodotta questa convergenza nel tempo?
Crescendo mi sono resa conto che non potevo separare quello che provavo da dove venivo: dalla mia famiglia, dalla nostra cultura, dal modo in cui le donne venivano considerate. Intorno a noi restava comunque l’idea che alla fine ci saremmo sposate, che la nostra “forma” sarebbe stata quella.
Negli Anni Settanta, quando ero al college, il femminismo era ovunque, ma nella vita quotidiana certi ruoli continuavano. Così ho iniziato a mescolare consapevolmente storia familiare, cultura d’origine, tradizione religiosa e condizione femminile. Non erano più ambiti separati, erano strati di uno stesso tessuto.

Arriviamo a The Fez as Storyteller. Perché proprio il fez diventa il protagonista di questo racconto?
Il fez è un oggetto fortemente connotato, legato a una tradizione maschile e a una certa idea di autorità e rispetto. Per me è quasi una presenza di famiglia, qualcosa che “sta” sulla testa degli uomini e che, in qualche modo, segna anche la vita delle donne intorno a loro.
Ho iniziato a usarlo come se fosse un corpo, o meglio una testa che porta memorie, ordini, aspettative. Rivesto il fez con seta, pizzi, stoffe, immagini digitali; lo taglio, lo moltiplico, lo appendo. Ogni pezzo diventa una piccola scultura che racconta una storia di matrimonio, obbedienza, ribellione, desiderio.
In Dis-Miss: Let Me Entertain YOU addirittura il fez diventa un reggiseno, è un’opera che colpisce molto. Come è nata?
Quell’opera nasce da un misto di ironia e rabbia. Ho preso due fez e li ho trasformati in un reggiseno, con frange e inserti che ricordano i costumi da danza del ventre. Parla della servitù femminile, del ruolo decorativo che ci viene assegnato. “Non stare lì come una decorazione” era una delle frasi che ho sentito spesso. Qui la decorazione diventa parodia: il fez, simbolo di potere maschile, si trasforma in “boobs”, come li chiamo scherzando. Non è solo una battuta, è un modo per mostrare come il corpo femminile venga usato e controllato.
Nelle tue recenti opere, come Queens of Babylon, senti ancora quella paura iniziale o ti sembra di essere arrivata a un’altra fase?
Penso che in Queens of Babylon ci sia ancora memoria della paura, ma trasformata in affermazione. Le figure femminili portano corone, mantelli, ornamenti e ti guardano con una calma nuova. Alcuni titoli lo dicono chiaramente: Re-find Your Power, Take Back What’s Yours, Recall Your Strength, Come Into Your Own. È un invito a rientrare nel proprio corpo e nella propria storia con autorità, senza cancellare la vulnerabilità.

Il Progetto Ezechiele (Ezekiel Project) attraversa un periodo difficile della tua vita. Di cosa parla questa serie?
Ezekiel era il cognome originario della mia famiglia; uno zio lo cambiò quando arrivammo negli Stati Uniti. È anche il nome di un profeta che parla di esilio e di ritorno. In quel progetto ho lavorato su questa sensazione di essere senza radici, di dover trovare una nuova base dopo una serie di traumi personali, dal divorzio a problemi di salute in famiglia.
Sono opere in cui frammenti di corpo, tessuti, fotografie e segni grafici cercano di ricomporsi. Non c’è una guarigione lineare, c’è piuttosto un lavoro continuo di ricostruzione, uno sforzo ostinato di rientrare in se stessi.
Per più di vent’anni hai insegnato arte alla Staples High School, oltre all’insegnamento universitario. Che ruolo ha avuto la didattica nella tua pratica?
È stata fondamentale. Ho diretto per vent’anni un programma speciale, un luogo dove potevo davvero lavorare con studenti e studentesse motivate. Vedere alcuni di quei ragazzi crescere, cominciare a esporre, arrivare persino in grandi gallerie di New York per me è stata una delle gioie più grandi. A loro ripeto sempre: cercate un rapporto vero con i vostri insegnanti, fate esperienza in galleria, in studio, con i curatori, persino con chi allestisce le mostre; è lì che si impara davvero come muoversi nel mondo dell’arte.
Indossare la tradizione, non subirla
Guardare le sue opere, i corpi frammentati, i volti, le regine e i tessuti che li attraversano non significa solo avvicinarsi a una storia “esotica”; significa riconoscere come le strutture che zittiscono le donne si ripetano, con variazioni, in molte culture. In quei bordi di stoffa, nelle stratificazioni di immagini e ornamenti, possiamo iniziare a immaginare un altro modo di indossare la tradizione, non come coperta che soffoca ma come mantello che finalmente ti veste per come sei.
Antonino La Vela
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