Quando l’arte diventa responsabilità. Intervista all’artista Lynn Hershman Leeson
La tecnologia, le donne, il potere. Sono questi alcuni dei temi portanti del lavoro di Lynn Hershman Leeson, artista statunitense che è stata in grado di anticipare le grandi svolte socioculturali degli ultimi decenni. Ne parliamo con lei
“Persino la relazione con noi stessi non dura per sempre”, scriveva Quentin Crisp. È la chiave per entrare nel lavoro di Lynn Hershman Leeson (Cleveland, 1941), dove il sé si costruisce e si sdoppia tra maschere, dispositivi e archivi, dai Diari Elettronici a The Infinity Engine. Alla Biennale Arte 2022 (Il latte dei sogni) questa tensione tra identità e tecnologia è stata esplicitata con chiarezza. Dalle azioni pionieristiche degli anni Sessanta, passa negli Anni Settanta a lavori cardine come The Dante Hotel e Roberta Breitmore; negli Ottanta esplora l’interattività con Lorna e avvia i Diari Elettronici. Dagli Anni Novanta porta la sua ricerca nel cinema e nei nuovi media (Conceiving Ada, Teknolust, Strange Culture), approdando poi alle biotecnologie con The Infinity Engine.
Ci sono artisti che “guardano avanti” e artisti che mettono il futuro nelle nostre mani. Hershman è tra questi: non profetizza, assume responsabilità. Roberta che sfida la burocrazia, Lorna che abita lo schermo, i diari che trasformano la ferita in sapere: non chiedono empatia, la pretendono. La libertà non è un premio, è una competenza da allenare, una tecnica dei corpi, dei dati e delle istituzioni. Se un giorno l’AI ci imitasse meglio di noi, resterebbe umano il rifiuto di delegare il coraggio. Finché possiamo spegnere la macchina e accendere una stanza di testimoni, questa responsabilità ha un nome: arte. E una voce precisa: Lynn Hershman Leeson.

Intervista a Lynn Hershman Leeson
Quando hai creato Roberta Breitmore ti attirava il rischio o era una strategia di sopravvivenza?
No: il rischio non mi affascinava. Volevo capire di quali componenti fosse fatta un’identità nel tessuto socioculturale e come potesse muoversi al suo interno una persona costruita. Roberta, come identità fittizia, finì per accumulare più storia di me: ottenne carte di credito e permessi che a me venivano negati. Se l’avessi creata oggi, probabilmente sarei finita in carcere; allora nessuno sapeva come gestire un caso simile.
Quale fatto ti ha convinta a uscire dai circuiti tradizionali e inventare spazi alternativi (come l’Hotel Dante)?
Un rifiuto “di principio” mi aprì gli occhi: un collezionista scartò una mia scultura solo perché fatta da una donna. A Berkeley, con il Free Speech Movement, capii che non dovevo chiedere permesso a un sistema che non mi riconosceva. Da lì la scelta di uscire dai circuiti tradizionali e inventare spazi autogestiti, dove mostrare lavori che il circuito istituzionale non sapeva ancora leggere e incontrare il pubblico senza mediazioni.
Con Lorna porti il pubblico “nella stanza e nella mente” di qualcun altro. Quanto era difficile allora proporre un’interfaccia interattiva in galleria?
Molto. Le persone non avevano familiarità con le interfacce: potevi installare l’opera e i visitatori non sapevano come procedere. Ci sono voluti anni perché musei e pubblico imparassero a “toccare” le immagini, non solo a guardarle.
Molti tuoi lavori mostrano il prezzo della libertà. Che cosa hai dovuto smontare, in te o nel sistema, per continuare?
Ho dovuto demolire pressioni culturali e precedenti che mi bloccavano. Ho capito che la mia esistenza artistica dipendeva da un modo unico di dire le cose; avrei fatto quel lavoro comunque, a prescindere dallo sguardo esterno. Questa scelta mi ha legittimata.
Femminismo e mercato: è cambiato davvero qualcosa per le artiste?
La parità di sguardo non è stata raggiunta. Più volte il mio lavoro è stato prezzato al ribasso rispetto a quello dei colleghi. Non per motivi intrinseci, ma per un retaggio culturale tenace, che cede, ma lentamente.

Hai anticipato pratiche oggi comuni, perfino i primi agenti conversazionali. Ti senti riconosciuta?
Ho realizzato quello che considero il primo chatbot quando nessuno sapeva cosa fosse. Il riconoscimento non arriva sempre: le idee circolano, a volte senza attribuzione. Succede.
Gli Electronic Diaries espongono ferite e confessione. Che cosa significa oggi lottare, corpo a corpo, senza edulcorare?
Alle più giovani non si chiede di rifare le nostre lotte: il campo è cambiato, anche se non abbastanza. La misura del cambiamento la dà il confronto con ciò che è venuto prima.
La “singolarità” tecnologica fa paura: le macchine ci supereranno? Che cosa resterebbe umano?
Noi possiamo staccare la spina, le macchine no. La tecnologia è un programma: non ha ironia, non ha coscienza. La paura del “takeover” esiste da molto tempo ma non credo a una guerra permanente tra umani e tecnologia: credo nella responsabilità con cui scegliamo di usarla.
In The Infinity Engine affronti clonazione, DNA, biotecnologie. La tecnologia può generare tenerezza, non solo controllo?
Sì, dipende da come la usiamo. Telefoni e reti sono estensioni di memoria e cognizione; rischiamo di dimenticare come vivere senza. La questione è orientare questa dipendenza, non subirla.
Hai fama di prevedere ciò che arriva. Come vedi il prossimo futuro?
La vita in rete è collettiva: una persona può connettersi a milioni di altre. Questo può aiutare a risolvere problemi. Abbiamo anche strumenti come l’ingegneria genetica, che possono correggere condizioni umane. Sono in gran parte ottimista; molti non lo sono, ma l’esito dipende da noi.

La tecnologia può migliorare l’inclusione o replica soltanto i bias in scala?
Può aiutare, ma solo se gli umani scelgono di progettarla in quel modo. La tecnologia è uno strumento; la responsabilità è nostra.
Hai trasformato l’archivio in resistenza: Conceiving Ada e Strange Culture salvano storie e persone.
Con Conceiving Ada volevo riportare alla luce un capitolo dimenticato della storia del computing. Strange Culture l’ho fatto per aiutare Steve Kurtz: il film ha contribuito alla sua liberazione. L’archivio non è deposito: è leva per intervenire sul reale.
Sei stata celebrata alla Biennale di Venezia (Biennale Arte 2022) e Logic Paralyzes the Heart è tornato in importanti contesti. Com’è stato?
Essere a Venezia è stato meraviglioso; ma anche costoso. Non c’erano fondi; viaggi e produzione sono stati difficili. Il riconoscimento spesso arriva tardi e illumina il pregiudizio che aveva reso invisibile il mio lavoro. È stato insieme esaltante e oneroso.
Sessant’anni dopo quelle prime azioni “guerrilla” in una stanza d’hotel: cosa è cambiato?
Molte più donne sono oggi artiste, curatrici, galleriste; prima non era così. La tecnologia è stata legittimata come linguaggio artistico; non lo era quando ho iniziato. Eppure l’uguaglianza non è stata raggiunta.
Dopo decenni tra arte, cinema e scienza, che cosa ti muove ancora: amore, rabbia o speranza?
Speranza, unita al senso di responsabilità. Le domande cambiano, e immagini, dati e corpi continuano a parlarsi. Il lavoro continua.
Antonino La Vela
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