È giusto ricostruire il tempio? Selinunte e la storia di tre colonne infami
La controversa (e costosa) ricostruzione di tre colonne del tempio G di Selinunte, in Sicilia, minaccia di cancellare irrimediabilmente uno dei paesaggi della rovina più celebri del mondo. Ecco perché
Chiunque visiti l’antica colonia greca di Selinunte, sulla costa sud-occidentale della Sicilia, viene investito da uno dei paesaggi della rovina più intensi, potenti ed estesi che la storia ci abbia consegnato. Un luogo dove il paesaggio si manifesta con il suo portato senza tempo, “classico” nella sua accezione di ciò che perdura oltre il secolo breve dell’uomo. Il paesaggio di Selinunte non è segnato da pietre timidamente affioranti: è sovrastato dalla rovina colossale, caotica, sconvolta, eppure a suo modo integra, unitaria, ordinata perfino, di grandiosi templi greci i cui edifici sono crollati su sé stessi. Un terremoto in epoca storica ne ha rimescolato ordine e simmetria, e ci si inoltra su colonne, architravi e fregi crollati come sulle membra di un gigante abbattuto, come all’interno di un labirinto.
Selinunte, le sue rovine e il suo paesaggio
Attorno, lambita dal Mediterraneo, strappata alla speculazione dall’archeologo Vincenzo Tusa, una campagna coltivata, cadenzata dal ritmo delle stagioni, pensata da Pietro Porcinai. Questo paesaggio, così brevemente tratteggiato, ha suscitato alcune delle pagine più belle che siano mai state scritte sul rapporto tra Uomo e Natura, sul senso della vita e della morte, sull’effimero e l’eterno: perché il paesaggio della rovina di Selinunte è ispiratore di alcuni dei pensieri più lirici e significativi che hanno segnato il percorso culturale ed estetico degli ultimi tre secoli, dal Sublime al Caos, dai viaggiatori del Grand Tour a Natoli, Consolo, Jean – Paul Sartre e Simone de Beauvoir. “Nuovamente, interrogammo i templi greci; non trovammo ancora niente da dire, loro non ci dissero niente: ma il loro silenzio aveva più peso di tante chiacchiere. Per delle ore, a Selinunte, lo subimmo senza stancarci, seduti tra enormi tamburi crollati” scrisse a riguardo. Simone de Beauvoir
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Il progetto per la ricostruzione di tre colonne del tempo G a Selinunte
Eppure, nella paradossalità della scempiaggine umana, da circa settant’anni, riusciamo nella mirabile opera di manomettere e alterare questo paesaggio facendo l’esatto, lapalissiano contrario di quanto occorre per preservare una rovina che da secoli viene apprezzata come tale: ricostruirla. Ci tenta, ancora oggi, la Regione Siciliana, con un’operazione-réclame che rilancia la ricostruzione, o anastilosi, di tre colonne del tempio G, alte più di 16 metri e dal diametro di 3. Sovente ci si chiede se l’anastilosi costituisca un falso storico, un’operazione di effettiva conservazione, o una spettacolarizzazione priva di concreti intenti didascalici. Non è questo il punto.
I dubbi sul percorso di ricostruzione
La ricostruzione delle tre monumentali colonne rappresenta, semplicemente, il più profondo, sfacciato e totale disprezzo del paesaggio selinuntino, il suo disconoscimento, rifiuto e tradimento, perseguendone nei fatti l’irrimediabile cancellazione. E, citando Bianchi Bandinelli, questa “distruzione di un valore culturale” (evidentemente non sentito o ignoto ai vertici della Regione) avviene nel clamore della politica e nel silenzio delle istituzioni: totally unfit per il compito che sono chiamate ad assolvere, la gestione e tutela del nostro patrimonio culturale che, nei fatti, non sono in grado di comprendere. “Come la cristallina, tersa, splendida evidenza e il numero infinito delle stelle m’avevano smarrito nella notte, così mi sgomentò e perse nel mattino il ritrovarmi mezzo in un mare magno di ruine” per usare le parole di Vincenzo Consolo
A Selinunte un investimento da 5 milioni di euro
Un’operazione che costerà cinque milioni di euro, di cui uno versato da Terna. Soldi che, a dirla tutta, potrebbero essere spesi meglio: a Selinunte le vetrate d’ingresso sono malferme da anni, i cartelli sono ingialliti dal sole, ampi brani del parco (esteso 270 ettari) sono negletti, il museo del Baglio Florio è torrido in estate e gelido in inverno, una mostra d’arte contemporanea piazza opere fuori contesto, e per far quadrare i conti il prezzo del biglietto di ingresso è più che raddoppiato in poco più di un anno. La visita completa, tra ingresso, mostra temporanea (obbligatoria), e navetta, costa 25 euro. Ancora, quei cinque milioni di euro potrebbero servire a rinnovare gli antiquati allestimenti dei musei archeologici siciliani, inchiodati all’epoca di Mary Quant, snobbati da turisti, visitatori, studenti. Un fallimento, come quello del Museo Griffo nella Valle dei Templi di Agrigento: ottenebrato da grate, affollato di oggetti e a tratti labirintico, registra meno di un decimo dei visitatori della Valle. Più che un gap, una fossa larga e profonda dove viene seppellita ogni reale missione di valorizzazione, studio e trasmissione del sapere. Specchio siciliano delle amare riflessioni fatte sul panorama italiano da Christian Greco, direttore del Museo Egizio di Torino: la scarsa partecipazione museale è anche causa degli ottuagenari allestimenti dei musei, è come se facessi studiare i miei studenti su un manuale di 80 anni fa.
In difesa di Selinunte
Tornando a Selinunte: c’è da aspettarsi che non una voce di protesta si alzerà dalla Direzione del Parco, né dalla Soprintendenza di Trapani, né dalla politica che, sulla faccenda, o tace o celebra. In questo luogo battuto dal sole e dal vento, già profanato dalla vanagloria umana, tramontato il tempo delle battaglie di Brandi, Argan, Bianchi Bandinelli, oggi solo il celebre archeologo Dieter Mertens ha preso posizione, “l’idea di una resurrezione di alcune colonne del tempio G mi lascia molto perplesso” – ha dichiarato – “temo che sparisca la percezione di monumentalità della grande rovina”. L’assedio non è una novità per l’antica colonia greca, ma sulle mura, accanto a Mertens, chi altri si opporrà, prima che su Selinunte sventoli bandiera bianca?
Gabriele Mulè
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