Arte che genera alleanze virtuose: intervista sul futuro dell’Associazione Arte Continua
Mario Cristiani racconta come, nel 2026, l’Associazione Arte Continua rilancerà il dialogo tra artisti internazionali, comunità e territori, proseguendo il percorso di rigenerazione culturale iniziato con “Arte all’Arte” trent’anni fa
Nel 2026 l’Associazione Arte Continua inaugurerà un nuovo ciclo di attività che coincide con una ricorrenza simbolica: i trent’anni di Arte all’Arte, il progetto che più di ogni altro ha segnato la storia dell’associazione e il suo rapporto con il territorio della Val d’Elsa. Ma per Mario Cristiani, presidente dell’Associazione e tra i fondatori di Galleria Continua, l’anniversario non è un punto di arrivo né un pretesto celebrativo. È piuttosto l’occasione per riaprire il discorso sul ruolo dell’arte pubblica, sul rapporto tra globale e locale e sulla capacità dei territori di rigenerarsi attraverso processi culturali condivisi.
Le Giornate per l’Arte Contemporanea di Associazione Arte Continua
Mentre in Val d’Elsa si preparano le Giornate per l’Arte Contemporanea – il 22 e 23 novembre 2025 tra incontri, visite e iniziative dedicate alla raccolta fondi per i progetti del 2026, tra cui la mostra di Leandro Erlich all’UMoCA di Colle di Val d’Elsa – Cristiani riflette sulla direzione futura dell’associazione. Il tema resta quello di sempre: intrecciare artisti internazionali e comunità locali, riattivare un tessuto culturale che unisce paesaggio, architettura, sensibilità ambientale e partecipazione sociale. Un modello che ha già lasciato nel territorio più di quaranta opere permanenti e che oggi guarda a nuove forme di intervento, dalla riforestazione urbana alla didattica, fino ai progetti nei contesti più fragili come il carcere di Sollicciano. In questa conversazione, Cristiani ripercorre le radici di Arte all’Arte, ne rilegge l’eredità alla luce delle sfide contemporanee – dall’antropocene alla crisi delle comunità locali – e racconta come l’Associazione Arte Continua voglia proiettare nel futuro quell’alleanza virtuosa tra artisti, istituzioni e cittadini che da trent’anni costituisce il cuore del suo lavoro.
Intervista al presidente di Associazione Arte Continua Mario Cristiani
Quali sono gli obiettivi principali che l’Associazione Arte Continua si è data per il prossimo anno? E in che modo il 2026 rappresenta un’evoluzione rispetto agli anni precedenti?
Il 2026 coincide con i primi trent’anni di Arte all’Arte e trentuno della mia presidenza in Associazione Arte Continua. La prima edizione risale infatti al 1996. Ma la celebrazione dell’anniversario, a dire il vero, non è l’aspetto che mi interessa di più. Non amo soffermarmi troppo sulle difficoltà o sulle interruzioni che le attività dell’associazione hanno dovuto subire per mancanza di fondi e di tempo. Preferisco pensare a come valorizzare le opere che sono rimaste e, se possibile, trovare un modo per raccontare di nuovo tutte le esperienze passate e il rapporto tra il globale e il locale che Arte all’Arte ha reso emblematico. In questi giorni sto rileggendo Glocalismo di Edward Goldsmith e Jerry Mander, pubblicato nel 1996, che, insieme alle tesi di Samir Amin sullo sviluppo autocentrato, mi influenzarono e mi influenzano tutt’oggi nei progetti che cerco di portare avanti con l’associazione e nella mia vita. Devo dire che il tema del rapporto tra queste due polarità (globale e locale) è oggi più attuale che mai, nonostante ci sia chi finge che tutto vada bene e che tutto procede come sempre, e che l’era dell’antropocene non incida in alcun modo con le drammatiche conseguenze che a breve ricadranno prima sull’umanità e poi sul resto degli esseri viventi. Il mio è un pessimismo della ragione e un ottimismo della volontà, parafrasando Gramsci, per questo conto più sull’aspetto dell’arte come un’individualità che diventa la libertà della specie, che su quello tecnologico delle grandi imprese dell’AI, che aumenta la manipolabilità dell’informazione e la distruzione del più adatto a vantaggio del più conforme, poiché dall’autocrazia e al narcisismo individualista del potente di turno il passo è breve. Per questo per me l’arte è un punto di partenza indispensabile per rigenerare una comunità di persone libere.
Il rapporto tra comunità, istituzioni, imprese e arte pubblica
E com’è cambiato negli anni il rapporto tra comunità, istituzioni e arte pubblica?
Arte all’Arte si è svolta dal 1996 al 2005; poi quell’esperienza, così com’era, si è conclusa. C’è stato poi il progetto Arte x Vino = Acqua, dal 2003 al 2015, e Arte Pollino nel 2009, in Basilicata. Il mio intento era portare in “distretti territoriali” fatti di piccole città artisti che normalmente lavorano e vivono nei grandi centri culturali del settore. L’idea era far tornare la contemporaneità nei luoghi dove storicamente era nata, perché questa parte d’Italia ha vissuto il Rinascimento con un’intensità tale da lasciarne traccia nella vita quotidiana di molte persone e di molte generazioni fino a oggi. Grazie a tale incredibile coincidenza era possibile riannodare questi fili e ridare loro vita, rigenerazione e aggiornamento identitario. Le opere venivano realizzate site-specific, nate e installate sul posto; in seguito erano per lo più smontate. Altre, quando si univa la mia richiesta di donazione agli artisti, venivano accolte dalla comunità locale e dalle amministrazioni: si realizzava così un incrocio virtuoso tra la volontà degli artisti, la nostra, quella delle amministrazioni e della cittadinanza. Nessuna amministrazione copriva tutte le spese: i contributi pubblici oscillavano tra i 5 e i 10.000 euro a comune. In questo senso si realizzava una sorta di ribaltamento di ruolo, nel senso che spesso l’artista diventava una sorta di “committente” del proprio lavoro nello spazio pubblico. Per me è stato significativo osservare questo ribaltamento dei ruoli. Storicamente l’artista serviva il mecenate; in questo progetto si può dire che l’artista sia stato il nesso su cui si è generata un’alleanza tra globale e locale. L’artista, ponendosi per autorevolezza come esso stesso committente, ha costruito uno spazio comune non per prepotenza, ma per poesia e forza concettuale, trasformando i luoghi senza imporre una logica di potere non solo economico e/o politico. In sintesi, come punto d’incontro, un processo di libertà e di scambio reciproco tra individuo e comunità.
In questo contesto, il mondo delle imprese partecipa o resta ai margini?
Negli anni Novanta la globalizzazione ha distrutto molte comunità locali: la delocalizzazione industriale le ha svuotate. Il turismo è esploso e le città sono diventate musei a cielo aperto, trasformandosi molto spesso in grandi centri commerciali. L’idea di Arte all’Arte era creare strumenti culturali per permettere alle comunità di dialogare con una dimensione globale che arrivava senza filtri. Per questo avevamo anche una guida ai prodotti tipici locali che, valorizzando la campagna e chi ci abitava, affermava anche l’alterità della campagna e rompeva l’idea di centro e periferia: la città vista da lontano poteva apparire come una scultura nel paesaggio. Valorizzare la campagna oggi è normale, ma nel ’95 era inusuale, e nel mondo un po’ superficiale e ingessato dell’arte contemporanea dell’epoca era visto abbastanza male. Più a sud di Siena si lavorava sul rapporto arte-architettura-paesaggio; tra Poggibonsi, Vinci e Scandicci invece sul nesso arte-tecnologia-scienza. Le imprese potevano diventare partner, trasformando cantine o stabilimenti in opere d’arte e costruendo un dialogo tra interno ed esterno. Così la qualità del prodotto diventava visibile nel mondo grazie agli artisti. È un discorso di equilibrio: salute e territorio da una parte, sviluppo dall’altra. Un percorso che stiamo rilanciando con Arte all’Arte x le Città del Futuro. L’arte può aiutare a rigenerare questo legame.
Tra progetti di riforestazione e attività educative
Questo approccio è collegato anche ai progetti di riforestazione urbana e alle attività educative?
Esatto. L’obiettivo è far muovere parallelamente diversi tipi di azioni, tutte connesse all’opera d’arte come nodo di una rete che tiene insieme la società e le comunità su vari livelli. Se lavori solo sull’arte e la tieni esclusivamente nelle gallerie o nei musei, la limiti e rischi di farla implodere. La questione è come rendere questo patrimonio vivo, come trasformare spazi industriali e di vita quotidiana in “opere d’arte”, per mostrare che è possibile trovare modalità che tengano insieme qualità della vita e tutela del futuro. Non mi sento bene all’idea di lasciare alle generazioni che verranno problemi enormi: la purezza dell’acqua, la qualità dell’aria o del cibo, non sicuri per la loro sopravvivenza. L’umanesimo, che vede l’uomo come misura di tutte le cose, oggi sta mostrando i suoi limiti. L’arte ancora una volta riporta alla nostra coscienza il fatto che, se non troviamo il modo di pensarci come specie, saranno i giovani e i figli a pagare il prezzo terribile del nostro riportare tutto e solo al mercato. Le piante sopravvivono anche senza di noi; noi senza di loro no. L’arte può ricordarlo introducendo pensieri a lungo termine, ripartendo dall’individuo e ricucendo l’idea di specie dentro e fuori da società che ragionano solo sul consumo immediato. Per me la riforestazione urbana nasce da qui. Non salverà il mondo, ma se io pianto alberi, poi magari lo fanno in dieci, in cento, in mille. È un gesto che può generare altri gesti.
Ho letto del progetto con la Casa circondariale di Sollicciano. E ho visto che la nuova circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria impone alle associazioni di inviare richieste non più al direttore dell’istituto, ma al ministero. È un rallentamento?
Sì, sicuramente. Il ministero è già ingolfato: se togli autonomia al territorio, rallenti tutto. Sono preoccupato: non voglio fare discorsi politici, ma nascondere le cose non risolve i problemi, serve solo a far finta di star meglio. Bisogna invece puntare sull’intelligenza delle persone e sull’attivismo diffuso. Altrimenti un giorno ci sveglieremo in un deserto. Per me istituzioni e individui devono dialogare e rispettarsi. Il non profit è il luogo in cui la flessibilità del privato incontra la stabilità del pubblico. Ma oggi si rischia un pantano in cui il privato fa il pubblico o si sostituisce a esso. Io difendo il contesto in cui opero, ma la mia attività privata non può essere per tutti. Per questo il ruolo dell’associazione è fondamentale: permette un dialogo paritario e non subordinato con l’istituzione.
Quindi il non profit diventa un contrappeso?
Sì. Più che un contrappeso lo definirei un punto in cui ognuno può mettere ciò che è giusto senza doversi preoccupare ogni momento di chi ne trae più profitto alle spalle del suo sacrificio. Agire non solo per profitto permette di fare molto con poco e per molte persone. Arte all’Arte ne è un esempio: il bilancio annuale del Palazzo delle Papesse all’epoca era di 1.100.000 euro; noi abbiamo avuto la stessa cifra in dieci anni per realizzare 89 progetti, lasciando opere permanenti che oggi valgono milioni e continuano a generare valore culturale e identitario. Una mostra dura tre mesi; un’opera pubblica dura centinaia di anni, stimola e rende possibile la cura e l’acculturamento. Crea radici, genera strati di memoria e speranza nel futuro… ossigeno per la mente e il cuore, rispetto per la fragilità di chi ha il coraggio di mostrarsi per ciò che è. Qualcosa che a me sembra sempre più indispensabile… nonostante tutto.
Caterina Angelucci
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