Al cinema il film The Smashing Machine: la storia di Mark Kerr tra combattimenti e fragilità
Presentato in anteprima all'82 esima Mostra del Cinema di Venezia, dove ha vinto il Leone d'argento per la miglior regia, il biopic sul lottatore Mark Kerr ha come protagonisti Dwayne Johnson ed Emily Blunt
Mark Kerr non è soltanto una leggenda delle arti marziali miste: è un corpo che urla, un cuore che combatte, una vita che esplode e implode allo stesso tempo. The Smashing Machine, in sala dal 19 novembre con I Wonder Pictures, racconta la sua storia, ma lo fa sfondando ogni cliché del biopic sportivo. Perché Benny Safdie non filma soltanto il dominio nell’ottagono: filma ciò che resta quando l’arena si svuota. Il titolo è un’onomatopea, un rumore, un impatto. Ma è anche il suono di qualcosa che si spezza dall’interno: “Solo perché sembri l’uomo più forte del pianeta non significa che tu sia invincibile”, dice il regista. Ed è qui che inizia la vera storia.

“The Smashing Machine”. Un amore che brucia
Il film è, soprattutto, un’inaspettata storia d’amore. Kerr e Dawn Staples-Kerr sono due forze della natura che si attraggono e si respingono con la stessa intensità: vulcanici, feroci, ma incapaci di lasciarsi davvero. Safdie riprende le loro discussioni come match verbali, con strategia, colpi bassi e ribaltamenti improvvisi. Dietro la violenza, però, emerge un legame che resiste a tutto. “In un mondo così competitivo”, scrive Safdie, “l’unica cosa su cui possono davvero contare è l’uno sull’altra”. È quasi paradossale che due persone così abituate a combattere trovino pace solo quando smettono di farlo.
Dwayne Johnson è Mark Kerr in “The Smashing Machine”
Per Dwayne Johnson interpretare Mark Kerr non è stato un ruolo: è stata un’immersione forzata nei suoi stessi fantasmi. L’attore racconta come, dal primo giorno sul set, sia riemerso tutto ciò che aveva tenuto nascosto: gli amici perduti nel wrestling, le dipendenze, le fragilità soffocate. Kerr, diversamente da molti, ce l’ha fatta. È sopravvissuto a due overdose, a se stesso, a quel mondo che ti chiede sempre di più. Ed è proprio questa linea sottile tra forza e crollo emotivo che Johnson porta sullo schermo: il momento in cui la “macchina” si ferma, quando la vergogna diventa troppo pesante e l’unico gesto possibile è coprirsi gli occhi per non vedersi.

L’empatia radicale del film “The Smashing Machine”
Safdie parla di una “empatia radicale” nel processo creativo: capire Mark e Dawn fino a sentirli sotto pelle. Per questo, quando è stato il momento di scegliere l’interprete di Dawn, la risposta è stata immediata: Emily Blunt. Non per un calcolo di casting, ma per la relazione di fiducia già esistente tra lei e Johnson. Serve confidenza, infatti, per lasciarsi crollare davanti a qualcuno senza trattenere nulla. Anche la genesi del film ha qualcosa di intimo e accidentale: un maglione giallo di Kerr perduto durante il Covid, un malinteso di “ghosting”, e una telefonata dal set di Oppenheimer. Una serie di coincidenze che riportano insieme Safdie, Johnson e Blunt, come se la storia stessa chiamasse a essere raccontata.

“The Smashing Machine”. Cosa resta dopo il combattimento?
The Smashing Machine non è un film sul vincere. È un film sul perdere, sull’arrendersi, sul rendersi conto che a volte il traguardo che inseguivi disperatamente è la cosa migliore che non ti è mai accaduta. Kerr non ha vinto il grande match in Giappone. Non ha cambiato la sua vita in una notte. Ma ha aperto gli occhi. E forse è questo che Safdie vuole lasciare allo spettatore: l’immagine di un uomo gigantesco che impara a stare dentro le proprie fragilità. Perché tutti sanguinano. Anche gli eroi. E il vero combattimento, quello che nessuno vede, comincia quando si scende dal ring.
Margherita Bordino
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