Di che cosa avranno bisogno le città del futuro? Se ne è parlato a Milano (con un occhio al Qatar)
Si è tenuta lo scorso ottobre la conferenza alla Triennale di Milano che ha esplorato il tema della longevità delle città, con l'architettura che torna a farsi ecosistema. Riflessioni a margine tra l’Europa e il Qatar
La settima edizione di Next Design Perspectives, promossa da Fondazione Altagamma con Triennale Milano, è stata la conferma di una traiettoria: non un convegno, ma un dispositivo critico capace di leggere il presente e di innescare decisioni. Due assi hanno strutturato la giornata: longevity e nuovi mondi. Non slogan; categorie operative per chi progetta prodotti, spazi, città, servizi.
Longevity: dall’etichetta alla pratica
La ricerca di Lisa White (WGSN) rimette ordine. La longevità non è solo “durare di più”, ma vivere meglio: qualità dell’esistenza, continuità intergenerazionale, salute climatica e relazionale. Il suo lessico prende posizione sul nostro quotidiano: slowdown come scelta di ritmo e connessione con il corpo e la natura; “wise tech” come tecnologia trasparente, capace di ricostruire fiducia; soft power culturale come motore di trasformazione. E i numeri, che contano: l’85% delle decisioni d’acquisto è emotivo; oltre il 60% delle persone desidera città più simili a com’erano “una volta”, luoghi di prossimità e relazioni, non solo di passaggio. Se la scelta è emotiva e la città è desiderata come comunità, il design deve ridisegnare ospedali, centri di ritrovo, interfacce e servizi restituendo ai sensi un ruolo centrale. La creatività, qui, non è ornamento: è una risposta concreta.
Il messaggio sottotraccia è semplice: si dura di più se si vive nella natura e ci si connette con il proprio corpo. L’alternativa — la mania dell’individualismo finalizzato ad arricchirsi facendo ciò che non ci piace, eliminando i sensi — ci consuma in fretta. La longevità, dunque, è un progetto culturale prima ancora che biomedicale.

Linguaggio, longevità, legacy: Foster e Boeri
Con Norman Foster e Stefano Boeri, moderati da Marco Sammicheli, la longevità assume sezione e pianta. Foster sceglie la prospettiva della legacy: edifici e infrastrutture come patrimonio vivo che attraversa generazioni, tecnologie, politiche. Boeri sposta il baricentro sul vivente: le piante non sono solo il polmone, ma il fegato del pianeta — filtrano, metabolizzano, rigenerano — e l’architettura deve smettere di essere oggetto per tornare ecosistema. Due sguardi, un compito: progettare nel tempo, non solo nello spazio.
Nuovi mondi: Doha come gateway
La presenza del Qatar alla Triennale segna un passaggio di fase: non più una periferia curiosa del sistema, ma un polo attivo di produzione culturale. Nel racconto di Fahad Ahmed Al Obaidly il caso-studio è emblematico: un’architettura “che abita” il giardino, nonoggetto da teca ma spazio-esperienza restituito alla città. È qui che si colloca la sua tesi: cambiare la narrativa del design significa spostarlo dal culto dell’icona alla relazione con il pubblico, dal museo alla vita reale.
La Biennale di Doha viene descritta come gateway verso la regione MANASA (Middle East, North Africa, South Asia): 27 Paesi che reclamano voce propria. Non più “nuovi mercati” ma nuovi mondi dove la progettazione incrocia clima, tradizioni, infrastrutture sociali, comunicazione. Fare di Doha un focal point non è un gesto di branding, è un atto geopolitico della cultura: un tavolo dove il design si discute non come stile, ma come linguaggio di convivenza.
Il merito della Triennale, nelle parole di Fahad, è avere unificato questa narrazione e posto una domanda scomoda: siamo in grado, come designer e come piattaforme, di articolare il valore del progetto in termini comprensibili—fino a una ragazza di quindici anni? Questa è la sfida contemporanea: democratizzare il senso del design senza impoverirne la complessità. Ed è anche il ponte naturale con i temi della conferenza: longevity (progetti che durano perché generano comunità) e slowdown (spazi che si vivono, non si attraversano soltanto).
In controluce, la mia esperienza diretta degli anni trascorsi in Qatar: l’evoluzione è rapidissima. Non più importare modelli; negoziare una grammatica propria mettendo a sistema clima, patrimoni, tecnologie, mediazione culturale. Qui la città diventa interfaccia sensibile: luoghi che abilitano prossimità, cura, apprendimento. E il design, sottratto alla teca, torna in strada.
Ristorytelling, trasformazione, comunicazione
C’è una parola che rimbalza, quasi un lapsus fecondo: Ristorytelling. Se la si prende sul serio, condensa la sfida: raccontare la storia (history) e riscriverla (re-storytelling) per trasformare come viviamo. È il punto in cui trasformazione e comunicazione si incontrano: narrativa, progetto e politica quotidiana coincidono. Se le scelte sono emotive e le città si desiderano più relazionali, allora il nostro racconto deve farsi esperienza — nei centri di ritrovo, negli ospedali, nelle piazze, nei servizi — e restituire sensi e tempo all’abitare.
Perché rivedere la conferenza (e cosa farne domattina)
Consiglio di riguardare gli interventi di Next Design Perspectives non per avere “trend da slide”, ma per porsi domande operative:
Longevity: quali scelte di progetto aumentano la qualità di vita nel ciclo lungo (materiali, manutenzione, uso, relazioni)?
Slowdown: dove e come reintrodurre natura e corporeità per far “durare” le persone (e i progetti)?
Reinvent: quali ospedali, centri di quartiere, luoghi di cura possiamo ripensare perché siano comunità e non procedure?
Nuovi mondi: con chi co-progettiamo — Doha, Emirati, Africa — per passare dall’export di forme alla condivisione di metodi?
Se il design è il linguaggio con cui decidiamo come stare insieme, allora la creatività non è evasione: è politica del quotidiano. E la longevità non è una curva demografica: è la misura del tempo che restituiamo alle persone.
Samantha De Reviziis
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