Intervista alla sperimentatrice musicale Valentina Magaletti. Tra batterie di porcellana e installazioni sonore
Sarà una summa della sua carriera da compositrice, il prossimo spettacolo della percussionista italo-inglese che si è imposta con l’album a 360 gradi “A Queer Anthology of Drums”. Al Teatro Della Cometa di Roma restaurato da Maria Grazia Chiuri
Valentina Magaletti è una delle figure più affascinanti della musica sperimentale contemporanea: batterista, percussionista e compositrice, capace di trasformare il suono in un linguaggio vivo e in continuo mutamento. Nata in Italia, a Bari, ma residente da quasi 30 anni a Londra, attraversa i generi con naturalezza, intrecciando avanguardia, jazz, post-punk, elettronica e ritualità sonora in un’unica, fluida identità musicale. Magaletti tratta le percussioni come un mezzo narrativo, con molta curiosità e sperimentazione. Negli ultimi anni, infatti, con i suoi lavori solisti e le installazioni sonore, ha ampliato ancora di più il proprio vocabolario creativo, fondendo percussioni acustiche, elettronica, registrazioni ambientali e strutture poetiche. Ogni progetto sembra un capitolo di una meditazione ininterrotta sul tempo, sulla ripetizione e sulla fisicità del suono (A Queer Anthology of Drums (2020), La Tempesta Colorata (2022), Rotta (2022)). L’abbiamo intervistata in vista della sua prossima esibizione il 19 novembre 2025 al Teatro Della Cometa di Roma, restaurato da Maria Grazia Chiuri.

L’intervista a Valentina Magaletti
Come riesci a bilanciare la tua versatilità come batterista con il tuo ruolo di compositrice e polistrumentista? In quale ruolo ti senti più a tuo agio?
Non è mai stata una scelta cosciente quella di ricoprire tutti questi ruoli, ho iniziato come musicista, come artista, per assecondare una forte esigenza di esprimermi. Il primo strumento che me l’ha permesso è stata la batteria, che ho studiato da quando ero molto giovane e da lì è stato un processo naturale. Sono sempre stata a contatto con tanti musicisti, strumenti diversi, quindi ho cominciato poi ad allargare la mia curiosità artistica, a provare a suonare altro. Il mondo della produzione è un capitolo quasi necessario, perché comunque si finisce per fare un proprio diario acustico e si finisce, tra virgolette, di produrlo per renderlo pubblico. Semplicemente sono andata dove la musica mi ha portato.
Nel corso degli anni hai, infatti, collaborato con molti artisti, tra cui Nicolas Jaar e Thurston Moore. Come ti adatti a contesti musicali così diversi mantenendo il tuo stile?
Per me la musica è comunicazione. Le parole spesso falliscono o comunque non hanno lo stesso potere e per me è semplicemente un modo per esprimermi. Non è solo un dialogo con me stessa, come può essere appunto il mio solo show che è introspezione, ma è anche un confrontarsi con l’altro. Ed è qui che nasce il bisogno di collaborare. È un dialogo che avviene attraverso la musica. E chiaramente ho sempre voglia di parlare, di dialogare con persone, culture e musiche diverse, perché abbiamo la fortuna, il privilegio di parlare un linguaggio che è universale, a cui non possiamo, non dobbiamo limitarci alla nostra lingua o parlare solo alla lingua che conosciamo.
Con la musica si possono superare tutte le restrizioni grammaticali.
Sì, ne è un esempio la mia recente collaborazione con Nídia, un’artista portoghese di origine africana che parla appunto portoghese e francese, mentre io ho una doppia cittadinanza, sono italiana e inglese. Quindi grammaticalmente, a livello di linguaggio, non c’è nulla in comune, abbiamo avuto gli stessi problemi a parlare in modo convenzionale tra di noi, eppure siamo riusciti a fare un disco (Estradas, pubblicato per Latency l’anno scorso N.d.R.), un disco che ci ha avvicinato tantissimo, che parla solo attraverso la musica.
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Le installazioni sonore di Valentina Magaletti
Sì, la musica è un mezzo che unisce e poi c’è l’arte visiva con le tue installazioni sonore. Ce n’è una in particolare che ti rappresenta?
Nel 2023, io e la produttrice e DJ olandese upsammy abbiamo sonorizzato una delle più grandi mostre al Rijksmuseum sui Royal Dutch Painters e quindi abbiamo dovuto studiare tutte le sale dei musei. Io, in particolare ne ho studiato i riverberi, perché ho portato la marimba e strumenti d’orchestra, ma anche batterie e quindi abbiamo registrato in ogni stanza e poi editato il contenuto. Credo che l’installazione sonora sia ancora lì, con Van Gogh e tutti i grandi Dutch Masters. Questo per dire che sono sempre diversi i progetti a cui mi rivolgo con entusiasmo, e non ce n’è uno in cui mi rivedo di più o che mi rappresenti di più perché sono sempre io, anche se in relazione al contesto.
Mi incuriosisce la collaborazione con Nicolas Jaar, come vi siete conosciuti?
Tempo fa mi mandò un’e-mail, io ero in un progetto con Tom Relleen, in un duo per più di 10 anni (i Tomaga, batteria di Magaletti e synth dello scomparso prematuramente Relleen N.d.R.). Mi scrisse dicendomi quanto apprezzava la mia musica, ma in realtà non lo conoscevo. Da lì in poi abbiamo avuto modo di lavorare con la sua etichetta Other People e abbiamo fatto un disco insieme a Tom Relleen e Per Bastien. Siamo diventati amici, io poi sono stata a casa sua a Torino e abbiamo lavorato insieme per un progetto a C2C Festival.
Che cosa avevate fatto?
Un’esibizione al Teatro Carignano, un concerto molto particolare. Ricordo di aver suonato una scultura sonora percussiva, fatta in metallo e resina, che era stata fatta apposta per questa composizione.

Valentina Magaletti al Teatro Della Cometa di Roma
A proposito di questo tuo uso di strumenti musicali non convenzionali, come definisci queste tue performance così eclettiche?
C’è tanta curiosità, nel senso che entro nella categoria degli musicisti cosiddetti sperimentali. Mi sono affacciata spesso a studi relativi ad altri materiali, per esempio la batteria di porcellana, è stata una commissione di un artista francese per il museo delle belle arti di Tours, che appunto mi ha dato la possibilità di studiare altri materiali percussibili, lo studio dell’attrito con la struttura di metallo, le gomme sulla porcellana. Mi interessa qualsiasi tipo di suono, di aspetto sonoro, ed essendo una percussionista mi trovo spesso, quasi ogni giorno, con delle bacchette in mano a trovare nuove sorgenti sonore, che non siano necessariamente una pelle di un tamburo.
La moda, e in questo caso il restauro del Teatro Della Cometa di Milano voluto da Maria Grazia Chiuri, si incontrano con la musica. Cosa ne pensi di questa contaminazione tra mondi creativi diversi?
Lei mi ha contattato in passato personalmente perché ha apprezzato il mio lavoro, Queer Anthology of Drums, e il mondo della moda in realtà ha supportato tantissimo questo mio album. Essendo un’artista queer, un’artista inclusive, questo lavoro a 360 gradi ha suscitato tantissimo interesse, ma anche curiosità.
E a proposito della performance che farai lì il 19 novembre, ci puoi dare qualche anticipazione?
Il mio solo show differisce sempre, perché comunque la stanza o il luogo in cui mi esibisco è parte integrante dell’esibizione, c’è uno scambio energetico per cui il contenuto poi alla fine ne dipende. Però in linea di massima credo di fare un sunto di quella che è la mia carriera da compositrice e spesso preparo una backing track su cui appunto mi esibisco, con una serie di pezzi appunto già composti, ma anche tanto field recording e tanto materiale non ancora pubblicato. È quindi una sorta di diario intimista, dove presento più o meno quello che è il mio diario sonoro.
Claudia Giraud
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