La cultura e la fabbrica. Intervista a tutto campo ad Antonio Calabrò sui musei d’impresa
Il ruolo sociale delle fabbriche, gli scenari internazionali che mutano, la relazione tra arte, cultura e impresa come cartina di tornasole e humus per l’Intelligenza Artificiale. Ne abbiamo parlato con il Presidente di Museimpresa in questa intervista
Le fabbriche aprono i cancelli in tutta Italia per raccontare l’intraprendenza. Confindustria e Museimpresa promuovono dal 14 al 28 novembre 2025 la Settimana della Cultura d’Impresa. Ma qual è realmente il ruolo delle imprese oggi in Italia? E quali sono le sfide che affrontano oggi sulle piattaforme internazionali. Ne abbiamo parlato con Antonio Calabrò Presidente di Museimpresa, l’associazione italiana che riunisce musei e archivi di grandi, medie e piccole imprese italiane, e Senior Vice President Cultura di Pirelli e Direttore della Fondazione Pirelli.
Chi è Antonio Calabrò
Messinese, nato a Patti nel 1950, è stato giornalista per L’Ora, II Mondo, la Repubblica e vicedirettore e poi direttore editoriale de II Sole 24 Ore dal 1997 al 2002. Successivamente è direttore de La Lettera Finanziaria, editorialista economico di La7 e, dal 2003 al 2006, direttore dell’agenzia di stampa APCOM. Nel 2026 festeggerà venti anni in Pirelli realtà in cui entra nel 2006, mentre nel 2019 viene eletto alla presidenza di Museimpresa, alla quale è stato riconfermato nel 2025 fino al 2027 per il terzo mandato. Convinto che la relazione tra cultura, economia e impresa sia un affare di indubbio successo se si esce da schemi che hanno dimostrato efficacia ma oggi a rischio di obsolescenza ha spiegato il perché in questa intervista…

Intervista ad Antonio Calabrò
Qual è lo stato dell’arte nella relazione tra impresa e cultura in Italia?
È uno stato ricco e complesso. Bisogna innanzitutto uscire dall’idea, poco aggiornata, che l’impresa sia solo “mecenate” e che valga esclusivamente lo schema che la vede come finanziatrice dei progetti e delle idee proposti dagli attori culturali. Intendiamoci, si tratta di uno schema positivo, perché colma il gap delle carenze della spesa pubblica – anche l’art bonus va in questa direzione – ma non coglie a fondo tutte le potenzialità del mondo dell’impresa.
Ad esempio?
Bisogna arricchire il ragionamento, considerando che l’impresa può essere allo stesso tempo un attore economico e un soggetto culturale, sulla scorta delle riflessioni di Elio Vittorini, Primo Levi o Italo Calvino. I brevetti appartengono alla dimensione culturale? E l’organizzazione del lavoro? O ancora: il bilancio di una impresa inteso come progettualità è un prodotto culturale? Superata la vecchia idea crociana del primato dei saperi umanistici, si va verso una cultura politecnica, come ci ha insegnato l’esperienza scientifica e creativa del Rinascimento.

Anche su un recente articolo su Il Foglio, lei ha sottolineato quanto le imprese siano passate da una posizione di mero mecenatismo a un ruolo attivo come produttori di cultura e di valori. Pensa che questo processo sia effettivamente in atto?
Come imprese ci stiamo provando. Bisogna tenere conto della rilevanza delle culture materiali, secondo la lezione della Scuola storica francese delle Annales. Il lavoro scientifico è un lavoro culturale. Con l’avanzare della tecnologia, tornando a quanto insegnatoci da Primo Levi o Sinisgalli e aggiornandolo in chiave moderna, bisogna nutrire l’Intelligenza Artificiale di una cultura integrata, definendo un linguaggio europeo e italiano delle conoscenze multidisciplinari. È proprio “conoscenza” la parola chiave, la koinè che deve unire i saperi, diventando elemento di guida e di governance.
Ha detto: «Fare impresa vuol dire costruire una cultura politecnica green e blue, con sintesi originali tra sostenibilità e innovazione». Perché green e blue?
La cultura politecnica mette insieme il sapere tecnologico delle imprese con l’arte, la musica, la letteratura. Ed è green, perché deve riguardare la sostenibilità ambientale e sociale. E blue indica il rapporto positivo e critico con l’economia digitale.
Su questo le imprese italiane sono molto avanti.
La sua è una formazione fortemente umanistica, sfatando il mito che per governare processi di impresa bisogna essere per forza economisti…
I miei sono studi classici crociani al liceo, seguiti da Giurisprudenza all’università. Il mio vecchio mestiere di giornalista mi ha portato poi a guardare attentamente ai fenomeni economici e alle storie d’impresa. E venti anni in Pirelli mi hanno fatto vedere da vicino il mondo della fabbrica, le trasformazioni della manifattura legate alla necessità di tenere insieme tutti i saperi in modo convergente, senza terrore per la dimensione tecnica e in controtendenza rispetto alle paure di Heidegger. Osservando, dunque, con attenzione, anche le possibilità offerte dall’incontro tra tecnologia e sviluppo sociale.
L’Italia ce la può fare?
Gli italiani hanno un grande vantaggio in questo senso, perché sanno unire memoria e innovazione, senza cadere nella trappola dell’amarcord nostalgico, ma dando vita a una storia che ha portato il nostro Paese a produrre, fin dal Medioevo, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo, ricordando la sintesi di un grande storico, Carlo Maria Cipolla. Bellezza come misura e qualità, o design se vuole, con una visione internazionale. Tutto questo fa si che la raccolta della nostra memoria manifatturiera sia una carta da spendere sui mercati in cui distintività e originalità sono dei grandi valori economici.
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Dagli Anni Cinquanta in poi in Italia la relazione tra la “cultura della fabbrica” e la storia letteraria del nostro paese raggiunge livelli altissimi con scrittori che lei ha già citato, del calibro di Elio Vittorini, Luciano Bianciardi, Mastronardi e dall’altra parte storie aziendali come quella di Olivetti, con Milano e Torino come fulcro. Cosa rimane di quelle esperienze?
Se guarda l’elenco dei collaboratori di Rivista Pirelli o di Il Gatto selvatico edito dall’Eni o ancora Civiltà delle macchine di Finmeccanica e Comunità della Olivetti, vi trova il meglio della produzione culturale italiana. Un legame di collaborazione che torna d’attualità. Confindustria e Museimpresa promuovono dal 14 al 28 novembre la Settimana della Cultura d’Impresa, e questo è un impegno progettuale che da “settimana” si è dilatato ed esteso a due, con l’obiettivo nel 2025 di “Raccontare l’intraprendenza” nella consapevolezza che oltre a “saper fare” è indispensabile “far sapere”. E questo gioco linguistico è molto di più di una battuta, ma vuole essere un vero e proprio progetto culturale e sociale.
Cosa avviene?
Le fabbriche sono “connesse” e “aperte” a osservatori esterni e agli operatori culturali, perché non c’è nulla da nascondere, anzi. La fabbrica è un grande agente di protezione e di relazione, ma anche un ascensore sociale. È un mondo dove fai carriera se sei bravo, altrimenti l’impresa non funziona. Sfatiamo un mito: l’imprenditore non è una persona ricca, ma è colei o colui che ha una idea di trasformazione della realtà, di cambiamento, di costruzione di un prodotto o di un servizio da mettere sul mercato. Poi servono i capitali per rendere questi progetti realtà. Ma si parte dalle idee, come nella cultura.
La fabbrica però negli scorsi decenni aveva un grande ruolo sociale, era una città, il luogo in cui accadevano le cose, che influenzava la vita e la cultura delle persone, entrando nelle rivendicazioni, nell’arte, addirittura nella cultura popolare (penso alle canzoni di Enzo Jannacci). È ancora così? Come si fa a riconquistare quel ruolo?
Noi ci stiamo provando. L’impegno è di riportare la fabbrica a essere elemento di connessione e di integrazione. Attraverso il lavoro, nella storia italiana della seconda metà del Novecento, è nell’impresa che le persone hanno trovato, anche in situazioni di conflitto, un progetto di vita e di cittadinanza intesa come processo critico. La fabbrica è un luogo di diritti e di doveri, di rivendicazioni e di spazi, anche taglienti e ruvidi, dentro cui la persona ha l’opportunità di realizzarsi.
Lei è Presidente di Museimpresa. Quale ruolo giocano oggi queste istituzioni nello scenario nazionale contemporaneo e quale contributo portano al sistema Paese?
I musei d’impresa conservano la memoria e offrono stimoli all’innovazione. Noi seguiamo l’idea di Mahler secondo cui “la tradizione non è culto delle ceneri ma custodia del fuoco”. I musei di impresa sono asset competitivi e produttivi, raccontano, per esempio, la storia dei brevetti come stimolo all’innovazione futura. E d’altra parte basta scorrere l’elenco dei 160 associati, da Kartell a Lavazza, da Dalmine a Pirelli, da Barilla ai Musei del Cibo in Emilia fino a Leonardo o a piccole realtà come il Museo del Pane d’Altamura, le Acetaie Giusti, e così via, per scoprire, in un elenco lunghissimo, come qualità, tecnologia e senso di bellezza si uniscono al rapporto con il territorio, generando valori forti culturali e sociali e, appunto, innovazione.
Lei è inoltre Senior Vice President Cultura di Pirelli e Direttore della Fondazione Pirelli. Quali sono gli obiettivi nell’immediato presente, come interviene l’arte contemporanea e quali saranno le strategie future?
L’arte contemporanea è fondamentale, se pensiamo a Pirelli HangarBicocca per esempio. Il rapporto con gli artisti, con uno sguardo internazionale, ci permette di cogliere anche i segnali più deboli del cambiamento, nel nostro mondo in perenne trasformazione. La sensibilità artistica percepisce e interpreta dimensioni che altri non vedono. E nella relazione con la cultura di impresa la creatività d’avanguardia trova un terreno fertile di confronto. A parte Pirelli HangarBicocca, come Fondazione Pirelli abbiamo realizzato altri importanti progetti.

Per esempio?
Le biblioteche aziendali, con sezioni di narrativa, saggistica e opere per bambini, sia nell’Headquarter Pirelli in Bicocca sia nella fabbrica di Settimo Torinese, disegnata da Renzo Piano. Il sostegno al Teatro Parenti e al Piccolo di Milano, ai quali abbiamo commissionato la produzione di opere ricavate, in totale autonomia, dall’esperienza di lavoro Pirelli. O ancora la relazione con la musica, con la scrittura ed esecuzione della pièce musicale Il canto della fabbrica di Salvatore Accardo, nata dall’osservazione dei ritmi della fabbrica a Settimo. E proprio lì, infatti, c’è stata la prima esecuzione davanti a mille persone, un terzo dei quali erano dipendenti. Sono esperienze che migliorano il senso di appartenenza, la qualità della vita aziendale, la piacevolezza nel pensare che il lavoro è un processo creativo e produttivo e ha una musica che lo rappresenta.
Sulla piattaforma internazionale l’Italia sicuramente esiste ma pare non diventare mai un modello, pensiero strategico. I nostri governi oscillano nel copiare modelli di mercato anglosassoni per i quali ci mancano le dimensioni e modelli statalisti che non appartengono alla nostra sensibilità dei luoghi e della creatività. Esiste una chance per un pensiero nuovo che ci unisca e ci faccia finalmente trovare, una via italiana allo sviluppo sostenibile?
Credo proprio di sì. Il futuro dell’Italia non può non stare nell’industria, sostenibile, ricca di cultura e legata ai territori, capace di dare un “avvenire alla memoria” del nostro saper fare. Se il fondamento è lavorare sull’economia della conoscenza, proprio l’Italia è in grado di tenere insieme cultura umanistica e scienza. Serve una politica industriale pubblica a sostegno, che sappia valorizzare il made in Italy inteso non solo come solo food, arredamento e moda, ma anche come meccatronica, robotica, meccanica, chimica, farmaceutica d’avanguardia, gomma e plastica, aerospazio, cantieristica navale. Tutti settori in cui l’impresa italiana occupa spazi importanti sui mercati internazionali.
Mercati estremamente complessi…
Certo. Sosteniamo e rilanciamo l’industria. Non è infatti una questione esclusivamente italiana, ma appartiene al grande panorama dell’industria europea, schiacciato, tra grandi giganti come Usa, Cina e l’emergente India. Dobbiamo costruire uno spazio industriale europeo che guardi alla tradizione e che abbia una struttura dell’IA che parli europeo, nutrita con i nostri valori, le nostre conoscenze, i nostri linguaggi. Il rischio, altrimenti, è che l’Europa (e l’Italia) diventino un Grand Hotel per la villeggiatura dei potenti del mondo. Un’idea, diciamolo, rovinosa.
Santa Nastro
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