Un orso salverà la cultura della montagna. I paesaggi del Trentino alla prova dell’overtourism
Mentre inizia il bimestre finale del 2025, non c’è dubbio che la scorsa estate verrà ricordata anche per il dibattito sulla metamorfosi della montagna italiana per effetto del turismo. Una riflessione dell’architetto Gabriele Mulè sull’overtourism, a partire da un’esperienza in Trentino
Oggi non può esservi alcun dubbio: il paesaggio della montagna è fragile e a rischio. E non è solo a causa dei cambiamenti climatici che, all’evidenza dei fatti, ne stanno rivoluzionando il volto: dal ritiro vertiginoso dei ghiacciai al prosciugarsi dei torrenti e dei laghi, dalla vegetazione che cambia agli eventi meteorologici eccezionali (come la tempesta Vaia che ha sradicato 42 milioni di alberi). La crisi dei paesaggi alpini del Trentino è anche, e soprattutto, culturale. Paesaggi la cui cifra estetica è stata segnata storicamente dall’inviolabilità, contraddistinti da una relativa (quando non assoluta) inaccessibilità, sono oggi colonie dell’industria turistica, raggiungibili da tutti e in tutte le stagioni: e i loro connotati indomiti e selvaggi, più da contemplare che da percorrere, hanno acquisito i tratti di un equivoco, domestico giardino alpino.
L’epopea della conquista della montagna prima dell’overtourism
Raggiungere i più bei paesaggi montani, in altri tempi richiedeva occasione, fatica, volontà e passo del montanaro: strumenti non alla portata di tutti. Un filtro naturale, potremmo dire, diluiva la presenza dell’uomo in funzione di forze ed età, conoscenza ed esperienza. Basterebbe ripercorrere la lista degli ospiti della Nave d’Oro, locanda storica di Predazzo – che ha accolto protagonisti della geografia e geologia, da Dolomieu a von Humboldt – per soppesare il senso pieno delle spedizioni esplorative di questi luoghi aspri ed ascetici che richiedevano accurate scelte, riflessioni, studi. Oggi, di questo accostarsi rispettoso, nulla o poco più.

La cultura della montagna e l’overtourism
E sono proprio i custodi della montagna, coloro che la abitano, ad aver spalancato le porte ad un turismo inetto, facilone, e pretenzioso. Quel che è peggio, un turismo numericamente sproporzionato, riversato in condizioni di assoluta e manifesta ingestibilità alla volta di santuari naturali e paesaggistici dall’aspetto forte, ma dagli equilibri traballanti. Non stupisce che tutto questo si trasformi in un generale assalto, in sentieri sovraffollati dove si fa la fila come al supermercato, nell’inevitabile invasione degli spazi della fauna.
Cosa sta succedendo alla leggendaria quiete montana in Trentino?
Ne è prova il parco dell’Adamello-Brenta e la tormentosa Val Genova, valle glaciale dall’estetica sublime, percorsa e modellata dalle forze fluide del Sarca, dalle cascate monumentali, dai duri graniti. La valle è collegata da un sistema di mobilità che fa acqua da tutte le parti. Insopportabili trenini formato luna park (di quelli che ormai infestano le località turistiche) collegano la vicina Pinzolo e la valle, con corse dagli orari saltati per il traffico, prese d’assalto da turisti di tutte le età. Una volta arrivati in Val Genova lungo una strada ancora strozzata dal traffico, la fragorosa cascata del Nardis fa a gara con il rumoroso andirivieni (inspiegabilmente consentito) delle auto in questo parco naturale. Di più, un servizio-navetta arranca pieno zeppo verso le quote più alte. Così, una mal interpretata accessibilità e inclusività, implica che tutti possano toccare senza sforzo l’estremità della valle, trovarsi al cospetto della Presanella (3.558 metri di altitudine) alla fine di un percorso inadatto (vivaddio!) alla viabilità fitta. Viene da chiedersi: è davvero nell’ordine delle cose che questo avvenga senza discrimine e contingentazione, per tutti nello stesso momento e alle stesse condizioni?
Dalla Val Genova al lago di Molveno, in Trentino, scene estive di “ordinario overtourism”
A Molveno, sull’omonimo lago, non solo la sconsiderata espansione turistica di hotel, affittacamere, residence si è aggrappata ovunque saturando il paese (a dispetto della conformazione e del buon senso), ma numerosissimi turisti sono richiamati dall’affollato impianto di risalita che scodella sull’altopiano del Pradel. Ancora: con spensieratezza totalmente priva di senso pratico e logico, sacrificando il rispetto dovuto a luoghi che erano dei padri e saranno dei figli, ci si avvicina alle cime dolomitiche del Latemar. Qui lo straordinario geotrail Dos Capèl e il suo percorso didattico-geologico orchestrato lungo 5 chilometri a 2.200 metri di altitudine, al cospetto delle cime asciutte dalla straordinaria storia e potenza, è sapientemente scansato dalle onde dell’overtourism che si fermano, comunque, in quota (1.600 m) ad affollare, rumorosamente e inconsapevolmente, rifugi e aree giochi costruite appositamente. Non che il disimpegno vacanziero sia una colpa: dovrebbe esserlo l’uso domestico, urbano perfino, dei luoghi naturali, dei nostri grandi paesaggi dove il turismo mordi-e-fuggi viene agevolato e coccolato. Luoghi dove trasferiamo, per diletto o convenienza, da consumatori o imprenditori, consuetudini, abitudini, comodità che dovremmo essere obbligati a lasciare nelle nostre case, senza la pretesa di impiantarle in mezzo a un bosco, o a 2.000 metri di altitudine.
In Trentino saranno gli orsi a salvare i nostri grandi paesaggi montani dall’overtourism?
In tutto questo, prospera la comunità di orsi reintrodotta in Trentino negli Anni Novanta. E la nuova convivenza, con i radi avvistamenti (e il sensazionalismo delle poche aggressioni) passati di bocca in bocca, da valligiano a valligiano, sta riformulando il rapporto tra la gente e la montagna rimarcando spazi di rispetto che erano stati dimenticati. Nelle Giudicarie, nel bosco magico della Lomasona che frequento ormai da 35 anni sulle orme “del” Giuliano, sul far della sera ci si incammina al limitare delle radure per scorgere i caprioli e la presenza dell’orso aleggia nei pensieri distratti. Vengo a sapere che “la Lucia non porta più a spasso il cane nel bosco da sola”, e scopro che “la Giuliana, quando accompagna il nipotino a cercar funghi, batte le mani e fischia come un pastore” per avvertire della presenza umana un possibile orso girovago.
Basta, insomma, l’eventualità remota di un incontro con questi animali grossi quanto schivi, a far emergere una sana inquietudine ancestrale e destare dai recessi della mente, avvezza alla tecnologia, un fondamento della nostra esistenza: l’istinto di conservazione, ed una diversa posizione, diversa dal vertice, nella piramide naturale. Grazie al vituperato orso, il bosco, come la montagna, non è più giardino di casa, domestica estensione del nostro vivere. Ha riacquistato la sua rustica selvaticità, ed essa è un enorme valore da scoprire. Conferisce, infatti, ai paesaggi del Trentino qualcosa che sembrava eroso fino ad essere irrimediabilmente perduto: un senso di insicurezza che svela il nostro essere effimeri di fronte alla Natura. Il che non è solo una lezione di vita, ma è motivo fondante della bellezza affascinante dei nostri grandi paesaggi montani.
Gabriele Mulè
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