Costrizione, ambiguità e controllo. L’opera di Mona Hatoum in Sardegna
In provincia di Nuoro, al Museo Nivola di Orani, il risultato di una residenza dell’artista libanese mostra la precarietà di un mondo guidato da tensioni e contraddizioni, dove lo spettatore è al centro dell’opera
S’intitola Behind the Seen, la mostra personale di Mona Hatoum (Beirut, 1952) al Museo Nivola di Orani, in provincia di Nuoro. Curata da Luca Cheri, Antonella Camarda e Giuliana Altea è il risultato di una residenza artistica e propone una serie di opere storiche affiancate da alcune nuove produzioni realizzate in collaborazione con artigiani locali. Motivo di riflessione sul rapporto tra essere umano e territorio, la mostra suggerisce uno sguardo che vada oltre alle apparenze, nel tentativo di rendere visibile l’invisibile.

Vita e arte di Mona Hatoum: l’esilio e il corpo femminile
“A primo impatto, voglio che il lavoro abbia una forte presenza formale, attivando una reazione psicologica ed emotiva attraverso l’esperienza fisica. Generalmente voglio creare una situazione dove la realtà diventa punto di discussione”, spiega l’artista. Profondamente segnata dall’esperienza personale, l’indagine artistica di Mona Hatoum origina dall’improvviso esilio forzato a Londra scaturito dallo scoppio della guerra civile in Libano nel 1975. La perdita delle radici d’appartenenza, l’orrore dei conflitti armati, la coercizione e la reclusione sono al centro della sua ricerca iniziata negli anni Ottanta attraverso atti performativi e video, dove il corpo femminile diventa territorio politico, controllato e minacciato. Negli anni Novanta approda all’installazione e alla scultura con l’ausilio di materiali spesso di riutilizzo, come acciaio, vetro, fili elettrici, sapone e capelli. Materiali comuni che l’artista tramuta in metafore del nostro tempo.
Tra sicurezza e precarietà
Il corpo lascia, poi, il posto a oggetti domestici decontestualizzati, ipertrofici, apparentemente stabili e sicuri, ma che a un secondo sguardo si rivelano ostili e minacciosi. Trappole insidiose, affilate come lame taglienti, s’impongono allo sguardo dello spettatore costringendolo a confrontarsi con la precarietà della condizione umana, poiché violenza e controllo si manifestano anche negli spazi più intimi. Come racconta Hatoum, “La questione della sorveglianza è un tema ricorrente nei miei primi lavori performativi e video. Implicano che la sorveglianza può penetrare persino dentro di te, non c’è luogo che resti intatto e non osservato”.

L’arte deve preservare l’equivoco
Perturbanti e altamente disturbanti, le opere di Mona Hatoum incarnano la traduzione di un mondo guidato da tensioni e contraddizioni, tra attrazione e inquietudine, seduzione e pericolo. In questo mondo il significato non è univoco, ma interpretabile in base alla propria esperienza. “Mi piace mantenere il mio lavoro aperto, così che possa essere interpretato su diversi livelli. L’arte non può essere paragonata al giornalismo; non può discutere questioni concrete”.
La residenza in Sardegna
Nello scorso mese di luglio si è conclusa la residenza dell’artista a Orani che ha dato luogo a una serie di opere realizzate in collaborazione con artigiani locali e che riassumono concetti e tematiche da lei sviluppate nel corso degli anni. Tra queste, una serie di piccole gabbie per uccelli prodotte dal laboratorio ceramico Terrapintada e Eye Spy, un tappeto in lana tessuto con la tecnica a pibiones (chicchi d’uva) da Maria Antonia Urru e che riproduce un’immagine pixelata della veduta aerea di una folla registrata da un drone. L’installazione Behind the Seen dà il titolo alla mostra: un assemblaggio di oggetti – come la rete di un letto ospedaliero, un groviglio di fili metallici, un peluche appeso per una zampa e uno scolapasta trasformato in una bomba munita di aculei – che ben si accosta alle Shooting Star I e II, stelle acuminate realizzate dal fabbro Emmanuele Ziranu. Oggetti quotidiani apparentemente casuali diventano inquietanti allegorie contemporanee.

Behind the Seen al Museo Nivola
A questo nucleo di opere, risultato della residenza artistica, si affiancano nuove produzioni, come Twelve Windows (2012-2013), dodici tessuti sospesi su corde creati in collaborazione con l’associazione Inaash – nata nel 1969 per creare occupazione per le donne palestinesi nei campi profughi libanesi –, che vuole essere una sorta di mappa di un territorio frammentato. E ancora Divide (2025), un paravento in acciaio e filo spinato; Round and round, soldatini giocattolo in bronzo fusi tra loro in un circolo chiuso, opera realizzata in risposta alla Guerra del Golfo nel 1991. Ispirata dalla visita al Museo Etnografico di Nuoro, Untitled (Red Velvet) (1996) presenta delle strutture anatomiche appese come ex voto che, tra attrazione e repulsione, suggeriscono la fragilità dell’essere umano. Quella a Orani è una mostra che seduce e atterrisce, che scava nella memoria e invita a indagare oltre le apparenze, a scovare le verità più radicate e taciute.
Roberta Vanali
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