Yvo Cho – The brain is not a ready-made machine

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Informazioni Evento

Luogo
INCURVA
Via San Francesco di Paola, Trapani, Italia
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Date
Dal al
Artisti
Yvo Cho
Curatori
Saim Demircan
Generi
arte contemporanea, personale

Mostra personale.

Comunicato stampa

The brain is not a ready-made machine è la prima mostra personale di Yvo Cho fuori dalla Germania, dopo i suoi studi alla Kunstakademie di Düsseldorf e alla Städelschule di Francoforte. La mostra si concentra su una selezione di fotografie recenti e include un’opera video, appositamente commissionata, che prosegue l’uso sperimentale delle tecnologie della fotocamera da parte dell’artista per documentare luoghi o architetture; in questo caso, La Borde – la clinica psichiatrica in cui lo psicoanalista Félix Guattari iniziò a praticare nel 1955. Il titolo della mostra è tratto da un saggio di François Tosquelles che, insieme a Jean Oury, fu tra i pionieri della psicoterapia istituzionale nella Francia del dopoguerra. [1] Oury fondò La Borde nella cittadina francese di Cour-Cheverny, dove venne presto raggiunto da Guattari, che vi lavorò per il resto della sua vita. La clinica si distingueva per essere stata istituita in un castello ottocentesco in campagna, piuttosto che nel tipo di architettura solitamente associata alla psichiatria.

Cho ha visitato Cour-Cheverny, dove la clinica è tuttora in attività, e ha filmato il castello e il parco utilizzando una camera modificata per registrare la luce oltre lo spettro visibile dall’occhio umano; per esempio, pietra e vegetazione vengono restituiti in tonalità lisergiche di fucsia e magenta. Piuttosto che un naturalismo ad alto contrasto, La Borde (2025) presenta il suo soggetto come ultraterreno, riecheggiando i vigneti impressionistici che compongono La petite Borde (2012) – il memoir scritto da Emmanuelle, la figlia di Guattari, sulla sua infanzia trascorsa nella clinica – che descrive un mondo normalmente invisibile.

In mostra, oltre a La Borde, il lavoro fotografico di Cho mette in discussione l’affidabilità delle immagini oggi e come il loro status cambi nel momento in cui circolano pubblicamente attraverso diverse piattaforme. Alcune fotografie in mostra ruotano attorno a due sculture recenti dell’artista, riproduzioni di un setaccio coreano, e tracciano l’origine, la realizzazione e la successiva documentazione di queste opere. Le sculture si basano su un Ki, uno strumento tradizionale per la raccolta del riso realizzato in bambù, che l’artista ha ricostruito in rame. Il Ki era anche un oggetto di mortificazione: come punizione, i bambini che facevano la pipì a letto, erano costretti ad indossarlo in pubblico. Dopo aver realizzato le sculture, l’artista vi ha urinato sopra – l’urina ossida il rame – in un gesto che potrebbe essere interpretato come un rifiuto dell’imbarazzo infantile.

Per Untitled Sculpture I-II (entrambe 2025), Cho ha fotografato le sculture durante la loro installazione in una recente mostra a Francoforte, utilizzando una fotocamera di medio formato da 400 megapixel per catturare le opere in scala uno a uno. Esporre le immagini delle opere anziché le sculture stesse significa evocare la perdita inevitabile – sia di dettaglio sia di coinvolgimento – insita nelle riproduzioni delle opere d’arte, che di solito si rivedono circolando online o stampate nelle pubblicazioni. Inoltre, Cho introduce la dimensione della soggettività nella documentazione delle opere d’arte. Sebbene siano spesso fotografi professionisti a documentare l’arte, esiste una genealogia di artisti che hanno fotografato i propri lavori; esempi precoci sono Constantin Brancusi e Medardo Rosso, quest’ultimo unico fotografo delle proprie sculture.

Wacho-Ri still life I (2025) è una fotografia del contenuto di un capanno degli attrezzi in Corea appartenuto al nonno defunto di Cho, usato per conservare lattine di olio motore per alimentare macchine per la raccolta del riso. La composizione della fotografia richiama una natura morta pittorica; qui, gli oggetti raffigurati simboleggiano come l’agricoltura industrializzata abbia sostituito le pratiche tradizionali che un tempo utilizzavano il Ki. A completare questo ciclo di lavori è Copper Reel (2025), una fotografia di una bobina di rame utilizzata da Cho come materia prima per realizzare le sue sculture, ripresa così com’era nel suo imballaggio di cartone. La forma della bobina di rame ricorda anche una pellicola cinematografica arrotolata, un’allusione alla celluloide e, forse, al cinema stesso.

Distribuita in tutta la mostra, la serie recente di Cho, After Giorgio Casali I-II-III (tutte 2025), riproduce immagini del fotografo Giorgio Casali raffiguranti una poltrona gonfiabile disegnata da Bernard Quentin, originariamente pubblicate in un numero della rivista Domus negli anni Sessanta. L’artista ha ingrandito tre immagini fino a renderne visibile la grana, poi le ha stampate su lino e trattata con lacca – un sigillante utilizzato per proteggere le superfici. Applicata qui, solidifica un’immagine che era già apparsa nei media di carta stampata, reintegrandola nel mondo fisico. Nella sua pratica, la fotografia incontra altre forme – pittura, scultura, architettura e design – di cui l’artista rinnova l’uso in un presente distratto, dove le immagini alimentano lo sguardo della macchina fotografica.

[1] In *Psychotherapy and Materialism: Essays by François Tosquelles and Jean Oury*, a cura di Marlon Miguel e Elena Vogman, Cultural Inquiry, 31 (Berlino: ICI Berlin Press, 2024), pp. 47–88.