Giulio Paolini al Museo Griffo di Agrigento: archeologia e arte contemporanea in una collezione siciliana. Grazie ai fondi PAC
Nel difficile dialogo tra antico e contemporaneo, mentre fioriscono in Sicilia attività non sempre di qualità, c’è chi punta ad ampliare le collezioni archeologiche con opere attuali di valore. L’installazione di un maestro del ‘900 arriva in un prestigioso museo agrigentino

Che in fatto di politiche del contemporaneo, tra produzioni e acquisizioni museali, la Sicilia non riesca a stare al passo con standard adeguati è cosa nota. Nessuna collezione d’arte contemporanea degna di questo nome, paragonabile a importanti realtà italiane e internazionali, è presente all’interno di un’istituzione pubblica siciliana: economie insufficienti e tentativi di gestione che scontano difficoltà e limiti d’ogni tipo. Le risorse messe a disposizione negli ultimi cinque anni dal PAC – Piano per l’Arte Contemporanea del Mibac hanno offerto in tal senso piccole boccate d’ossigeno a realtà come Riso o il Museo civico di Castelbuono.

Un’opera contemporanea per le collezioni del Museo Griffo
È dunque una lieta notizia quella che riguarda il Museo archeologico Pietro Griffo di Agrigento, vincitore del bando PAC 2024, che a partire dal prossimo 5 settembre accoglierà nelle sue collezioni un’opera recente di Giulio Paolini, indiscusso protagonista della ricerca artistica del secondo Novecento, presente da oltre 60 anni in grandi musei e rassegne di tutto il mondo. Torinese, classe 1940, raffinato artista dal profilo concettuale, Paolini fu inserito da Germano Celant nella rosa di nomi che fecero il destino e la fortuna dell’Arte Povera, movimento che Paolini frequentò, pur mantenendo un profilo personalissimo e mai esauribile in facili etichette.
In virtù delle frequenti ispirazioni legate alla purezza marmorea della statuaria antica, sempre indagata con sguardo analitico e approccio intellettuale, Paolini vede oggi approdare una sua installazione nel cuore della Valle dei Templi: è il Parco, ente amministrativo di riferimento per i siti archeologici regionali del territorio, guidato da Roberto Sciarratta, ad aver condotto la candidatura con la cura di Antonio Leone e di Giusi Diana.




Qualità e bandi Mibac per il Parco della Valle dei Templi
Un bel segnale, se si pensa ai diversi eventi discutibili che sovente sbucano fra templi, aree archeologiche e teatri di pietra, in assenza di riflessioni profonde sui luoghi, seguendo logiche da botteghino e trascurando la più alta mission che i beni culturali siciliani sono chiamati a perseguire: solo in fatto di arti visive basti citare l’ennesimo bastimento di retorica a buon mercato targato Jago, in arrivo il 3 settembre al Teatro antico di Taormina, o i giganteschi animali di Stefano Bombardieri, invasivi e fuori contesto come giocattoli pop oversize, che riconnoteranno addirittura per un anno e mezzo il paesaggio intorno al Tempio di Selinunte.
Nell’anno di Agrigento Capitale – con il suo sofferto percorso – il Parco della Valle dà allora un segnale opposto: nessun museo siciliano d’arte antica aveva fin qui provato ad attingere dal PAC, puntando a un’idea di valorizzazione d’alto profilo per la propria permanente. Un modo per superare steccati cronologici e linguistici lungo i rigorosi allestimenti scientifici, offrendo allo sguardo e al ragionamento aperture simboliche ed estetiche differenti, quanto rispettose. Opere da esporre, da ruotare, da custodire, comunque da inserire tra beni e memorie dell’istituzione.
In questa stessa direzione il Griffo si era già mosso nel 2024, con la bella mostra site-specific di Claudio Gobbi curata dall’associazione ruber.contemporanea e da Giusi Diana, con il sostegno di “Strategia Fotografia 2023”, altro piano ministeriale per la produzione e l’acquisizione di opere contemporanee, ma d’ambito fotografico: al termine di una residenza l’artista realizzò una serie di lavori ispirati alle preziose raccolte archeologiche del Griffo e agli allestimenti originali di Franco Minissi, tutti entrati a far parte del patrimonio museale. Con la scultura di Paolini inizia così a prender forma l’idea di un piccolo, costituendo nucleo dedicato al contemporaneo, fondato sul rapporto tra opere, spazi e reperti.






L’opera di Giulio Paolini ad Agrigento
Vis-à-vis (Amazzone) (3), del 2019, riprende il tema del doppio, caro alla poetica di Paolini, inserendosi in una serie costruita attraverso articolazioni di calchi in gesso ed enigmatici fondali: intorno allo spunto semantico del “faccia a faccia” nascevano così nel 1992 Vis-à-vis (Alessandro) e Vis-à-vis (Hera), omaggi ai simulacri del grande generale macedone e della consorte di Zeus, mentre nel 2020 sarebbero nati Vis-à-vis (Kore) e “Fine” senza fine (Vis-à-vis).
Le due metà dell’aggraziata testa femminile di Agrigento si osservano e si specchiano l’una nell’altra, immobili sugli immacolati plinti, pronte a inaugurare una danza silenziosa del possibile, nello spezzarsi clamoroso dell’identità e nell’incipit di una moltiplicazione di sguardi, di distanze, di interpretazioni e compenetrazioni. La scultura si schiude e si amplifica, facendosi ambiguo dono aperto alla propria frammentazione, al senso della pluralità, a pratiche ininterrotte di rilettura. In un’intervista rilasciata a Francesca Pasini nel 1985 l’artista spiegava: “Quando metto uno di fronte all’altro due esemplari identici di una stessa scultura antica non voglio essere l’artefice o il riscopritore di quelle sculture, ma l’osservatore che coglie la distanza che le divide, quindi tutte le possibilità di rapporto o di assenza di rapporto che si determinano tra loro, e tra quell’immagine e noi”.
Le due teste d’amazzone sono incorniciate da una tela a parete, spazio di neutralità e di infinito scavo, identificato dal vuoto monocromatico e da una serie di riquadri geometrici tracciati a matita, un incrocio di angoli e diagonali: simili elementi grafici continuano a tornare nel lavoro di Paolini già a partire dagli anni ’60. Così, nell’attrazione magnetica tra il bianco di fondo e il bianco delle due figure, perfettamente centrate, si definisce il rapporto tra l’oggetto e quell’ideale spazio di rappresentazione che è alla base della moderna cultura visiva. L’opera richiama la potenza dell’artificio prospettico, figlio della tensione costruttiva del disegno, con cui si fonda e rifonda un doppio perfetto e sempre incompiuto del reale.

L’Amazzone di Paolini in dialogo con un cratere greco
Il riferimento iconografico dell’opera, collocata nella Sala XV del Museo P. Griffo, è una copia dell’“Amazzone ferita” attribuita allo scultore greco Policleto (V sec. a C.), reperto d’epoca romana conservato presso i Musei Capitolini di Roma. Il richiamo alle raccolte del museo è immediato: a poca distanza si trova infatti il grande cratere attico a volute a figure rosse (460 a.C.) del Pittore dei Niobidi, proveniente dalle necropoli di Gela, in cui si narra la vicenda di Pentesilea, regina delle Amazzoni, caduta durante la guerra di Troia per mano di Achille, il quale sperimentò il tormentato intreccio tra eros e thanatos: nel momento in cui la colpiva a morte si ritrovava ad amarla. Con i suoi 2500 anni e la minuta raffigurazione mitologica nei toni del rosso e nel nero, lo splendido reperto vascolare stabilisce un contatto ravvicinato con il candore assoluto di un’opera del presente, che all’urgenza della narrazione sostituisce l’esigenza di una meditazione concettuale. Un dialogo calibrato, costruito per contrasti e corrispondenze, per distanze e prossimità, lasciando che la luce del mito continui a proiettarsi in tutte le direzioni, verso tutti i linguaggi e le cronologie.
“Poche volte nella mia lunga carriera”, ha dichiarato Paolini in occasione dell’acquisizione agrigentina, “sono stato così felicemente sorpreso dall’apprendere che una mia opera trovasse dimora in un luogo così perfettamente consonante con la sua stessa natura. Non avrei potuto immaginare un contesto più affine, e di questo desidero ringraziare coloro che hanno fortemente desiderato e voluto realizzare questa particolare acquisizione”.
Helga Marsala
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