Di veleni e antidoti. Intervista al duo Enzo e Barbara che sono sulla copertina di Artribune
Sulla copertina del nuovo numero di Artribune Magazine c’è l’installazione del duo padovano Enzo e Barbara (alias Riccardo Lodi e Greta Fabrizio), che riflette sull’inquinamento del terreno veneto. Li abbiamo intervistati
Il territorio veneto è avvelenato. È questo uno dei punti di partenza dei lavori di Enzo e Barbara, duo artistico formato dagli artisti padovani Greta Fabrizio (Padova, 2000) e Riccardo Lodi (Padova, 1998) che firma la copertina di Artribune Magazine 85. Una ricerca che si concretizza nella forma dell’installazione e che si radica nella loro regione e in chi la abita, che sia umano oppure no. Presente e allo stesso tempo assente, forse come eterno inquinante egli stesso, l’essere umano, con le sue attività di agricoltura e di industria, è certamente sottinteso: è punto di partenza senza ritorno, una negazione che è anche apertura alla possibilità di guardarci con altri occhi. Ne parliamo con loro, attraversando le fasi di una pratica modulare, partecipativa e sempre in fieri.

Intervista al duo Enzo e Barbara
Qual è il vostro percorso? Quando avete iniziato a lavorare come duo?
Lavoriamo insieme dal 2022. Veniamo entrambi dall’Accademia di Belle Arti di Venezia, dalla Scuola di Pittura [Riccardo] e da quella di Scultura [Greta], e quando ci siamo resi conto che avevamo entrambi una ricerca relativa in qualche modo alla comunicazione (a livello umano da un lato, e sotterraneo dall’altro) e che desideravamo indirizzare la nostra pratica verso l’installazione abbiamo capito che lavorare insieme avrebbe potuto essere proficuo. Ed è stato così.
Partiamo dal lavoro che c’è in copertina, Veleno Veneto. Da cosa nasce?
Veleno Veneto è nato da un lavoro che avevamo realizzato anteriormente in studio nel 2022. Si chiamava Umanissimo, ed era un’analisi su cinque macrocategorie che secondo noi definivano l’essere umano; una di queste era l’agricoltura. Questo ci ha portato a soffermarci di sull’agricoltura nel nostro territorio, il Veneto: ci siamo imbattuti nel grave inquinamento delle acque da PFAS e l’entità di questo danno ecologico era talmente allucinante che abbiamo sentito la necessità di affrontare il tema nel nostro lavoro.
Spiegate in breve la questione PFAS in Veneto
Con il termine PFAS si intende composti chimici sintetici non biodegradabili – e per questo definiti “inquinanti eterni” – diffusi su larga scala, come nel caso di Gore-Tex e Teflon. Un inquinamento che ha un impatto enorme sull’ambiente, e quindi anche sulla salute degli esseri umani: ci sono bambini che rischiano di sviluppare disturbi endocrini, ormonali, tumori, solo perché cresciuti con cibo e acqua inquinati (latte materno compreso). Quando persino l’allattamento diventa avvelenamento, non si può guardare dall’altra parte.

Come avete condotto la ricerca?
Incontrando persone direttamente interessate dalla questione, medici per l’ambiente come Claudio Lupo e organizzazioni come Mamme No Pfas, impegnate nella sensibilizzazione e nella battaglia per un futuro più sano per i loro figli. La coralità della ricerca, che coinvolge professionisti di diverse discipline, è sempre al centro del nostro modo di lavorare.
L’opera si configura come una installazione di organismi vegetali dall’aspetto quasi alieno. Cosa c’è dietro a questo tipo di concretizzazione?
Esatto, abbiamo scelto di realizzare delle piante in ceramica, organizzate in parti modulari e smontabili. Il loro aspetto deriva proprio dall’incrocio di agricoltura e industria, due settori su cui il Veneto si è arricchito, anche a discapito della salute dei suoi cittadini e del suo terreno. Abbiamo quindi voluto immaginare quali piante, quali organismi potrebbero svilupparsi dalla corruzione ambientale. Una vegetazione se non malata, mutata. E che proprio tramite la sua mutazione costituisce un grido di allarme rispetto a un terreno inquinato da sostanze invisibili, come lo sono gli PFAS.
E in effetti sono piante ricche di spine, di parti ostili, quasi contundenti. Non c’è nessun “romanticismo della natura”, nessuna rappresentazione idilliaca. Anzi…
Era proprio un nostro obiettivo rendere equivoco l’aspetto delle piante. Se non allestite nel terreno, possono anche sembrare delle armi, delle lance. C’è una sorta di aggressività non dichiarata, insita nell’organismo, che diventa in qualche modo portatore della violenza che l’ha fatto ammalare.
Avete avviato la produzione di Veleno Veneto anche durante la vostra residenza da Parsec, a Bologna. Qual è stato il senso di portare un lavoro così situato territorialmente in un altro luogo?
Da Parsec abbiamo parlato di Veneto al di fuori del Veneto. Per noi era un modo per portare alla luce una problematica poco nota al di fuori del territorio che interessa. E poi nonostante la ricerca di partenza sia quella che ti abbiamo raccontato, secondo noi l’opera si presta a qualsiasi contesto di avvelenamento ambientale, al di là del singolo caso.

Recentemente questa ricerca ha avuto un’evoluzione: i Depuratori. Di cosa si tratta?
I nostri Depuratori, realizzati in collaborazione con Marco Selmin, sono circuiti speculativi di depurazione delle acque, costituiti da taniche, tubi e parti in ceramica ispirati a forme organiche. L’idea è quella di richiamare modalità naturali di depurazione, attraverso specifici funghi o alghe attualmente oggetto di importanti studi, proprio per la loro capacità di agire come filtri. Dopo Veleno Veneto, che si configura come la denuncia di una problematica, i Depuratori sono la proposta di una sua risoluzione.
Avete realizzato più versioni dei depuratori. Sono fasi di un processo?
Esatto, le diverse elaborazioni dei depuratori (che si distinguono mediante una progressione numerica – Depuratore 1, Depuratore 2…) costituiscono momenti di un divenire, che ha come polarità da un lato l’industriale, dall’altro l’organico. Per ora li abbiamo esposti a Venezia e a Bologna, rispettivamente da terzospazio e Hidden Garage.
Guardando i vostri lavori non posso fare a meno di pensare che la vostra tensione verso un allestimento a pavimento sia legata non solo ad una vicinanza con la terra e quindi con l’oggetto della vostra ricerca, ma anche ad un modo di fare arte che si allontani dal piedistallo. È così?
Sì, molte volte facciamo fatica ad elevare le nostre opere ad opere. È come se fosse il luogo, o comunque quello che stiamo analizzando, a portare fuori il processo artistico e quindi l’opera in sé. L’utilizzo dei piedistalli o di qualsiasi dispositivo di valorizzazione ci viene molto poco naturale, perché preferiamo che il lavoro si veda e si fruisca esattamente come accade con i luoghi che visitiamo.
Un rapporto diretto.
Esatto, un rapporto diretto. E poi probabilmente c’è anche la volontà di allontanarsi dall’idea di un oggetto statico e isolato dal mondo, fatto di materia inerte. Un po’ un rifiuto accademico se vuoi. Crediamo che togliere l’importanza dell’opera dall’equazione sia quello che poi, paradossalmente, la rende importante. Ci piacerebbe che le opere diventino parte del contesto in cui esistono, come se veramente si fossero generate in quel luogo. Quindi sì, effettivamente il piedistallo non l’abbiamo mai contemplato.
Vi faccio un’ultima domanda, forse un po’ provocatoria: nelle vostre opere gli elementi artificiali sono effettivamente artificiali, ma quelli organici sono scultorei, e quindi legata anche a una storia dell’arte e non prettamente “naturale”. Questo dal mio punto di vista pone la vostra pratica in una dimensione più speculativa che effettiva (non che sia un male).
Per il momento la nostra è una pratica assolutamente speculativa: agire in una relazione con organismi viventi, pensando di raggiungere una certa efficacia – ipotizziamo – del processo depurativo, è qualcosa di estremamente complesso e, per il momento, lontano dalla nostra portata. Anche perché sono ricerche (scientifiche prima ancora che artistiche) ancora in una fase di sperimentazione. La direzione, con il tempo adatto allo sviluppo di una ricerca simile, è comunque quella di opere biodegradabili e che integrino processi organici in modo il più possibile efficace.
Alberto Villa
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