A Palermo nuove estetiche del sacro. 4 artisti in mostra tra santi, sirene, briganti e baccanali
Da RizzutoGallery, a Palermo, la dimensione del sacro viene affrontata in connessione con le dinamiche arcaiche – ma eterne – dell’esistenza. Visioni autentiche e personali che indagano il simbolo e l’archetipo nella contemporaneità

Senza polemica o intellettualismo, le quattro sale di RizzutoGallery a Palermo dispiegano modi diversi di intrecciare le componenti recondite dell’esistenza, in posizione diacronica tra cultura popolare, storia dell’arte e immaginario collettivo. Mattia Barbieri, Daniele Franzella, Luigi Presicce e Francesco De Grandi operano una ricerca simbolica, spirituale e antropologica, che sfugge alle aspettative di un mercato dominato dalla sete di comunicazione etica e politica. Con la mostra Santi, sirene, briganti e baccanali, RizzutoGallery riconferma una predilezione per la sperimentazione e la scelta di progetti dalle letture autentiche, capaci di associare tradizione e attualità. Seguendo una delle poche possibilità per un’opera di essere valida, di essere un campo di tensione tra realtà opposte, questi artisti si allontanano dalla pericolosa affermazione di un’unica verità assoluta.
Il sacro nelle opere di Mattia Barbieri
La sovrapposizione dei segni, le combinazioni tra gli elementi e il presunto soggetto sono al centro dell’opera di Mattia Barbieri (Brescia, 1985). Un artista eclettico, nel senso proprio del termine, che coordina tecniche e iconografie diversificate senza seguire una gerarchia; ogni componente, indagata con alta competenza tecnica e critica, dispiega molteplici vie di analisi. Il paesaggio è un elemento costante che, come una finestra nella bidimensione del quadro, riesuma la pittura paesaggistica senza effettivamente adoperarla. Nella maniera più immediata viene anche trasposta la necessità di porsi in dialogo con il divino: ogni connessione tra l’alto e il basso è compiuta da verosimili divinità in modo quasi atletico. L’allestimento cura questo aspetto disponendo gli oli su rame sul medesimo asse orizzontale, creando visivamente un nesso con l’idea di orizzonte. Uno sguardo verso l’altrove e l’ulteriore. Barbieri considera le sue opere come dei portali e, in quanto tali, determinano passaggi dimensionali verso una spazialità sacra. Il pattern cromatico vibrante, sostitutivo della foglia d’oro medievale, è la cifra di un’icona conforme al senso contemporaneo. L’ironia non manca mai: dalla denominazione di serie, come OH SACRE BLEU, alla creazione di falsi storici tramite contatori di date, illudendo che l’opera sia stata realizzata cento anni prima. Tra i lavori a tecnica mista – olio, tempera e cemento su tavola – Madonna 1924 (2024) e Madonna Malevič 1924 (2024) sovrappongono due visioni della medesima iconografia con soggetto sacro. Da un lato il versante realistico della tradizione – una madre con il proprio bambino – dall’altro quello avanguardistico del Suprematismo russo con il Quadrato nero di Malevič: concepita come l’ultima icona, un buco nero in cui tutto è contenuto, inclusa l’ineffabilità del divino. L’opera sovrappone e disinnesca, unisce l’inizio e la fine di un’icona. Generalmente prevale la tendenza a chiedersi quale sia il tema affrontato e il messaggio che ne consegue. Ciò che la prima sala si propone di scardinare è questa propensione a un ragionamento che limiterebbe le possibilità dell’espressione. Come dispositivo di lettura e restituzione del reale, la pittura compone i frammenti della mitologia e della cultura collettiva. Ne emerge un’opera priva di una gerarchia interna, dove il ruolo del soggetto ha ceduto il passo alla molteplicità.
Daniele Franzella esplora le potenzialità del simbolo
Nell’immaginario collettivo il simbolo non guida verso certezze, piuttosto disorienta e confonde. Daniele Franzella (Palermo, 1978) lo affronta come campo aperto di possibilità e riconfigurazioni. La parete frontale della seconda sala è occultata da una tenda verde; interessante il richiamo all’allestimento della personale Mitologema (2023) presso RizzutoGallery. Dal fondo emerge l’affresco digitale che esemplifica un possibile modo per manipolare le immagini. Fotografie provenienti dall’archivio dell’artista vengono trasferite sull’arriccio fresco mediante una stampante a getto d’inchiostro. La foto, materialmente e concettualmente, passa da una condizione inattiva ed effimera, all’interno di un archivio, ad uno stato concreto e permanente mediante il consolidamento chimico-fisico della porzione di muro. Il monumento, nell’accezione etimologica di qualcosa che ricorda e celebra un evento, può essere rimesso in discussione. Al di là di ricerche sull’anti-monumento, pone l’accento sull’alterabilità delle informazioni. Possiamo ritenerci saldi nella presunzione di conoscere l’origine di un ricordo o di una percezione sensoriale? Costantemente stimolati da fattori sinestetici che rievocano sensazioni dimenticate: la melodia di alcune frasi, l’essenza di un profumo dell’infanzia… Esplora l’unità minima di immagini viste ma dimenticate, come i simboli del mito, per riformularle tramite varie tecniche. Idra (2025), Chimera (2025), Sfinge (2025) sono opere in fotoceramica installate su plinti; animano la sala di un senso antico e imperscrutabile. In questo caso è il mitologema, l’unità archetipica del mito, ad essere messo in dialogo con la memoria involontaria collettiva. Dopotutto viene esplicitato un processo con cui ci confrontiamo quotidianamente, ogni elemento percepito è involontariamente messo in relazione con la sua categoria, ad un ricordo associato. “L’immaginazione è l’intermediaria fra percezione e pensiero” (Frances Yates). Il simbolo condensa concetto e immagine, ma può essere infintamente alimentato data l’assenza di una corrispondenza univoca tra la realtà e la rappresentazione. Ogni parte lasciata grezza evidenzia l’aspetto tecnico, ovvero la presenza di una terza cottura che sigilla l’immagine sulla ceramica; concettualmente la prima e l’ultima fase delle forme, dalla bozza alla rappresentazione. Due ceramiche dipinte a mano – Piccolo Pan (2025) – evocano, nella loro forma fallica, i baccanali: culti misterici antichi che prevedevano situazioni di trance collettive, un modo per rompere le barriere tra l’individuo e il dio dell’ebbrezza.
Le sirene del futuro secondo Luigi Presicce alla RizzutoGallery di Palermo
Ibridi, pelosi, pungenti; le creature di Luigi Presicce (Porto Cesareo, 1976) si allontanano dall’ordinario per diventare sirene. Con grande fluidità espressiva, nel percorso artistico, ha adoperato vari mezzi nella misura più adatta per indagare tradizioni popolari, l’esoterismo e il folklore. Immagina una possibile evoluzione umana nell’homo sapiens sapiens sapiens. Una biochimica indefinita che risulta più fedele alla realtà evolutiva dell’homo, costituita da innesti con ominidi, rispetto la falsa idea di un’evoluzione lineare. Il tema venne dapprima sviluppato negli oli su tela tramite colori saturi e tratti caricaturali, su figure non ascrivibili in generi o categorie. La capacità sviluppata dalla specie del futuro consisterebbe in piedi prensili. Loro potranno gestire più dispositivi contemporaneamente senza perdersi nessun post. Una speranza… In questa terza sala la scelta curatoriale si rivela particolarmente significativa ripercorrendo l’evoluzione artistica di Presicce: le ceramiche vengono disposte su piedistalli mentre le tele dominano il flusso espositivo, essendo la matrice della ricerca plastica. I supporti stessi sono esito di una produzione artistica, opera di Edizioni Brigantino (Giovanni Donadini e Valentina Lucchetti), Milano. Il contatto con i pignatari di Seminara (Calabria) e il maestro ceramista Gennaro Condurso permise all’artista di apprendere la tecnica di smaltatura calabrese. Le tradizionali fiasche antropomorfe – babbalùti – sono state rivisitate tramite l’alterazione dei tratti fisionomici, caratteristica del suo lavoro: mento e naso appuntiti, bocca e guance pronunciate. Pensando alle culture indigene e alle società “fredde” (Claude Lévi-Strauss), tese al mantenimento della propria identità e impermeabili alla storia, riscontriamo l’uso di maschere e alterazioni facciali per esorcizzare la paura e la morte. Paradossalmente avviene l’opposto nelle società “calde”, come la nostra, che si fondano sulla loro storia e assorbono i cambiamenti tecnologici. Qui le alterazioni facciali e gli espedienti estetici rimandano il decadimento del corpo, negando l’idea della morte. Eppure, nel tratto somatico risiede il testamento dei miei antenati, la traccia reale e ibrida del mio passato.

Francesco De Grandi e il miracolo possibile a Palermo
È la pittura di Francesco De Grandi (Palermo, 1968) a chiudere il filo conduttore della mostra. Naufragio grande (2024) domina la sala; già visibile dagli ambienti precedenti, assumendo la forza di un punto focale che attrae e orienta il percorso espositivo. Una tragedia quotidiana irrompe in uno scenario che si presta alla manovra dell’artista: sull’elemento familiare – l’iconografia del naufragio – ne innesta uno perturbante, estraneo – i giubbotti di salvataggio – che costituisce la soglia dal dato reale al dato altro. Per raggiungere una dimensione numinosa, sacra è necessario avvalersi di un mezzo che sia stra-ordinario, serve tradire il genere. La pittura risulta paragonabile a una pratica psichica: manipolando minerali, olio, tele di tessuto per permettere alla materia di restituire un’immagine della vita. Forse nella speranza che possa celarsi dietro una verità, una rivelazione inaspettata. “Quando dipingo un bosco, o in generale quando dipingo la natura, mi metto in contatto con i processi caotici del creato; i gesti, nel dipingere una pianta, nel dipingere dei rami, mi avvicinano alle strutture e ai meccanismi della creazione”, dice l’artista. Le pratiche di trance riducono il controllo analitico tramite una gamma di condizioni che alterano la percezione di sé. Con la sospensione dell’identità si apre l’accesso a stati di coscienza superiori. Per potere veramente agire fuori dall’ordine e dal determinato serve essere matti, emarginati; figure spesso presenti nelle tele di De Grandi, in anfratti bui e scene scabrose mentre contribuiscono a una narrazione che rimane indecifrabile. La Pesca miracolosa (2025) evoca un tempo sospeso, l’episodio evangelico vuole dimostrare il potere di una divinità onnipresente. Con grande intensità, è resa ammissibile l’idea che dei pescatori contemporanei, al largo del porto di Palermo, possano assistere ad un’eccezione, che il miracolo sia possibile in ogni istante e contesto.
Daria Castellese
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