
Un department store sotto le stelle, dove il menswear si reinventa tra heritage e sperimentazione. Alla Fortezza da Basso di Firenze è andato in scena Pitti Uomo 108 (17-20 giugno 2025): oltre 740 brand e un’affluenza in crescita confermano il dinamismo della manifestazione, con più di 4.400 buyer esteri già registrati a metà della terza giornata. A celebrare l’edizione, le sfilate evento di Homme Plissé Issey Miyake, tra plissé futuristi e riflessioni etiche, e di Niccolò Pasqualetti, che rilegge la sartoria in chiave fluida e post-identitaria. A raccontare a Artribune strategie e visioni della manifestazione è il CEO Raffaello Napoleone.

L’intervista al CEO di Pitti Uomo Raffaello Napoleone
Il calendario della moda internazionale è saturo di eventi e fiere: in questo scenario ipercompetitivo, con oltre 43% dei brand provenienti dall’estero, come si preserva l’identità e la centralità di Pitti Uomo quale baricentro del menswear globale?
Beh, sicuramente lo scenario è uno scenario in movimento. Nel sistema fieristico internazionale ci sono grandi cambiamenti. Per quanto ci riguarda, restiamo fedeli a una strategia che ha sempre dato buoni risultati: grande selezione, non vendita di metri quadrati, internazionalizzazione e soprattutto un contesto cittadino che consente alle aziende di rappresentarsi in maniera identitariamente molto forte, utilizzando al meglio Firenze. Una valorizzazione delle sue unicità, che altri luoghi, soprattutto in eventi legati al menswear, non possono offrire.
Alcuni osservatori registrano una deriva crescente verso un lusso ostentato. È un ritorno alle élite inevitabile o c’è ancora spazio per una moda maschile più colta, sobria e culturalmente stratificata?
Nella storia del costume e della moda, anche nei periodi più difficili, emergono sempre grandi opportunità per la creatività. L’uomo, oggi, come la donna, vive cambiamenti importanti negli stili di vita. C’è un crescente tema legato al wellness, inteso non solo come benessere fisico, ma come modo di vestire e di vivere la quotidianità. Basti guardare alle città e al boom della mobilità dolce: le biciclette richiedono abbigliamento performante, diverso da quello abituale. Anche marchi storicamente legati al formale stanno lanciando linee active. È una chance per allargare il campo d’azione della moda maschile, nei tessuti, nei filati, nelle performance, mantenendo uno sguardo sulla contemporaneità.

















L’evoluzione del concetto di Made in Italy
Il concetto di Made in Italy è spesso evocato come garanzia di eccellenza. Ma oggi, in tempi di filiere frammentate e produzioni transnazionali, cosa resta davvero “italiano” in un capo che porta questa etichetta?
L’Italia è inattaccabile, e lo dico con obiettività. Le filiere in molti paesi sono in difficoltà, mentre qui vediamo un forte movimento di rilocalizzazione produttiva, soprattutto sui prodotti di largo consumo. Noi rappresentiamo la parte più qualificata del processo, dalla materia prima alla manifattura. La sartoria e il made-to-measure stanno andando molto bene. C’è poi una novità assoluta: il second hand. Non è vintage, è una nuova cultura. Mia figlia, ad esempio, non vuole più acquistare capi nuovi: tramite siti e app può facilmente attivare scambi e acquisti. Dove una volta bisognava vestirsi con un marchio per sentirsi parte del gruppo, oggi è l’opposto. L’identità personale è tutto, e la differenza rispetto alla propria migliore amica è un valore. Anche questo è made in Italy, perché recupera la storicità dei brand con consapevolezza.
I dati più recenti ci dicono che Francia, Germania, Stati Uniti e Cina restano i principali mercati per l’export del menswear italiano. Ma quali sono, secondo lei, i “mercati-cerniera” su cui investire oggi per delineare le traiettorie nei prossimi anni?
I mercati consolidati restano cruciali, ma ci sono nuove aree interessanti. Penso al Sud-Est asiatico: sono stato di recente all’Indonesian Fashion Week, un evento focalizzato sull’universo femminile, in un paese con grandi saperi tessili e artigianato di qualità. Anche la Thailandia e, più marginalmente, il Vietnam, meritano attenzione. Manca ancora un sistema distributivo forte, ma il potenziale c’è. Lo stesso vale per il Messico, che può portare risultati significativi. Dubai, Corea, Giappone, Stati Uniti ed Europa restano centrali, ma oggi bisogna saper cogliere opportunità trasversali, dove cultura locale e domanda premium possono incontrarsi.
Pitti Uomo 2025, tra ambiente e storia
Il tema scelto per questa edizione, la bicicletta, incarna tensioni tra artigianato e tecnologia, velocità e contemplazione. Ma al di là del concept narrativo, la moda è davvero pronta a intraprendere un percorso concreto verso la sostenibilità o il rischio di greenwashing resta alto?
Oggi il tema ambientale è sempre più centrale, anche normativamente. Esistono regole da applicare o ancora da definire. Uno dei nodi più delicati in queste settimane è quello della tracciabilità nella filiera della conceria: un tema tecnico ma essenziale. Il rispetto ambientale non è più negoziabile. Se ne parla da anni, ma ora si sta trasformando in pratica. La moda ha il dovere di affrontare questo cambiamento con serietà.
Da quasi trent’anni lei è il timoniere di Pitti Immagine. In questo lungo arco temporale, cos’è che oggi non rifarebbe e, al contrario, cosa sceglierebbe di riaffermare con maggiore convinzione?
Non ho recriminazioni. Una delle scelte che forse oggi rivaluterei è la chiusura di Pitti Casa, decisa dai cotonieri italiani quasi vent’anni fa per affiancare il Salone del Mobile. Con il ritorno dell’interesse per il design tra i giovani, potremmo pensare a una sua nuova edizione, con una visione più aggiornata. Anche perché il design oggi ingloba molte tematiche. Ho imparato che quando si mescolano settori diversi, quelli con una muscolatura più fragile rischiano di essere penalizzati. Ma è da queste esperienze che si impara a rafforzare l’identità.
Alessia Caliendo
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