Feliscatus – La zucca di Michelangelo

Informazioni Evento

Luogo
11DREAMS - ART GALLERY
Via Rinarolo 11/c, Tortona, Italia
Date
Dal al

dal martedì alla domenica 16-19

Vernissage
03/05/2015
Artisti
Feliscatus
Generi
arte contemporanea, personale
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Il montaggio di un film non è opera d’improvvisazione.

Comunicato stampa

Il montaggio di un film non è opera d'improvvisazione.
Richiede, a chi è chiamato a farlo, esperienza specifica non da poco, che può anche non essere di lunga durata; una naturale predisposizione può ridurre, anche di tanto, il tempo altrimenti occorrente per l'accumulo di tale esperienza. Come in altre attività creative, del resto. Necessita di calma, mutare in sequenze di senso compiuto spezzoni sparsi di pellicola con file interminabili d’immagini; e pazienza, sicuramente. Anche capacità di analisi e di valutazione del giusto peso da dare ai dettagli, seppure marginali. Ed è ovvio, bisogna avere proprietà di sintesi, occhio deciso e sicuro nella cernita delle sequenze, a volte decine, simili tra di loro, non uguali per quel poco che fa la differenza: un cenno, un movimento delle labbra, un colore, un'accelerazione eccessiva.
Ma poi c'è altro, di essenziale. Come il mantenimento costante della visione d'insieme. E' indispensabile che non venga mai meno; neanche per un momento, possibilmente. Pena una scollegata e indecifrabile frammentazione dell'opera. L'ingarbugliamento dei fili nella trama e nella tessitura della storia che si deve svolgere secondo uno sviluppo prestabilito. Come risultato si avrebbe uno spezzettamento del percorso, sfibrando la tensione del flusso del racconto; recuperabile, l'ago elastico di quest'ultimo, coi tasti di una linotype a tre piedi, necessaria all'intreccio dei fili di Arianna-immagine, in proiezione Arianna-pittura. Annacqua il ticchettio nel corridoio sonoro del Minotauro-Picasso, un lavoro per lo più a spasso e ondivago. Per Teseo-aquila di Prometeo la chiusura nel labirinto dell'indecisione e della vaghezza è inutile. Naturale, con la minuziosa lettura, totale e selettiva perché dall'alto, lo smarrimento è impossibile, e ogni filo superfluo.
Un fatto è più di una cosa tra le tante: la visione d'insieme coordina non solo le sequenze effettive del film che vuole ritenersi tale ed è ben messo per riuscire, ma si estende ad altre scene esterne e proprie di altri film, coinvolgendole per eliminare quanto non proficuo per mezzo della versatilità e dell'indirizzo atemporale del montatore. Egli, se è bravo, ne ha il merito. Sta lì, a fare di un film un'antologia del cinema. Poi c’è la parte sonora, delle musiche; è molto utile o fuorviante, dipende dalle scelte che vengono fatte.
Ridurre, assolutamente, occorre, le vie traverse ai minimi termini, anche le strade secondarie brulicanti di insetti kafkiani nelle topografie metalliche e tessili, luminescenti e sghembe di Klee.
La costruzione di un quadro (o di più quadri appartenenti a un gruppo) può non richiedere niente di cui l'assemblaggio delle parti di un film ha bisogno. Anzi, il disorientamento della forma che nel cinema può facilmente confondere e distrarre, stancare e innervosire, è invece cercato in alcuni cicli di lavori di pittura, dove, fortemente voluto e funzionale, si comporta in tutt'altra maniera, e non è sostituibile con altri sistemi di conduzione verso un punto, evidentemente prestabilito dall'artista, che dà il senso a tutta l'opera.
Non deve sembrare mancanza di compattezza né difetto della pittura l'assenza di collegamenti tra varie parti e zone a sé di un dipinto o più dipinti (l'interpretazione in questo senso a volte è dovuta alla superficialità e incompletezza di una lettura di primo acchito) in un racconto che si svolge tutto sul piano e simultaneamente, senza altra successione temporale fuorché quella che occorre per spostare lo sguardo da una parte all'altra del quadro o da un quadro all'altro.
La trama di un film è sequenziale. Quella della pittura va spesso in più direzioni, una delle possibili è a raggiera, con verso interno o esterno, anche disordinato o a zig-zag. Una raggiera è possibile che diventi eccentrica, magari dev'essere indotta a gravitare sul bordo, oppure vuole fuoriuscire rivoltandosi dal cerchio, anche virtuale, di contenimento.
Più che altro, all'inizio di un nuovo percorso pittorico, serve capacità investigativa; e intuito, che poi è uno dei lati del mestiere di arguto indagatore. Bisogna cercare di capire quali vie stia seguendo, e dove voglia andare a parare, l'inquietudine sismica presente – in momenti che questa sorta di vibrazione di frementi e tintinnanti biglie porta a individuare con facilità – nell'aria scavata da scosse, dai movimenti della quale, pulsazioni, variazioni termiche, vuoti e pieni, risucchi e rigonfiamenti, se ne percepisce l'evoluzione, nell'avvicinamento graduale ai confini e alla definizione di una forma riconoscibile. Il resto è musicale rilassamento tecnico, immenso piacere manuale e grafico (almeno all'inizio); commestibilità, gratificante sazietà cromatica.
L'itinerario e l'arrivo alla forma attesa hanno uno sviluppo a scatti (con chiarimenti improvvisi e impennate svolte), ognuno al successivo elettricamente collegato, e alcuni dei quali sembrano dotati di preveggenza, non di natura paranormale ma dovuta a razionale capacità di calcolo.
Gran parte dei quadri, su cui per quattro volte viene apposta la parola “fine”, è conseguenza di deduzione e complicate linee di collegamento di vari punti del cervello, che vengono fuori in certi momenti fatti di odori, suoni, percezioni tattili, sensazioni di gusto, visione più o meno concreta del già fatto che cade a pioggia, sollevandosi come la forza di gravità della grande ruota di Vienna (lì, lo zoccolo degli edifici l'avevo trovato più luminoso dei cornicioni); oppure sono mescolanze eterogenee di vari stadi e passaggi nella costruzione dei dipinti, che collidono e rimbalzano tanto quanto le gomme di protezione a macchine dalle ruote atrofiche – tra avanzamento e scivolamento, contraccolpo e giramento – in una scintillante notte di olezzanti canti di un lupo e una lupa a un luna park di periferia. Ora, quando è in arrivo la materia “cruda e grezza” delle idee, ma è ancora al grado d’inafferrabilità, della quale però, seppure non ancora presente, si percepisce indubitabilmente la vicinanza, si è in uno stato di felicità contenuta, che a tratti sbotta in euforia di possesso. La convinzione che la volatilità dell'idea stia per farsi materia che si potrà toccare e manipolare dà un piacere tipico, sensuale e prismatico, l'aria muta in corpo solido, intagliato e riflettente come pietra dura brillante, per diventare poi corpo mobile, permeato di forme che, instancabili, girano come batteri canterini dentro yogurt colorati. Sta per aprirsi un nuovo territorio. Tutto da esplorare e coltivare, il resto è secondario, si vedrà, arriva quasi da solo.
Di solito, l'artista Maigret, si dà da fare nell'investigazione in un tempo che sta tutto nell'attenzione vigile e ininterrotta a ogni geometrico indizio, e in questo tempo di riscaldamento, continua messa a fuoco di tutti i particolari, tempo analitico prima, sintetico dopo, sezionatore e cubista nella prassi come Picasso di cent'anni or sono, riesce a collegare le fila di ciò che sta per diventare colore e forma. Il momento successivo cambia aspetto e natura, in esso si restringe il campo d’interesse che diviene specialistico. Quando appare, in un certo numero di fogli disegnati, ciò che prima in testa girava come elettroni attorno al nucleo di un atomo, fino a che, in fase di consolidamento ormai avviato, come affacciato al balcone, e con l'agitazione mutata in compiaciuta energia, l'artista investigatore vede sfilare davanti a sé, a flusso continuo, tutti i componenti di una parata, tra saettanti e giocoliere forme acrobate e malleabili trastulli di terra verde.
Dopo c'è la realizzazione metodica. Il piacere per questa i primi tempi non manca, e ha la proprietà dell'innesco di una potenza fisica. Se occorre una tecnica avanzata, no problem! si aggiunge al precedente il piacere della ricerca tecnica, della grafia e della pennellata che devono essere appropriate al lavoro che sta per avere inizio.

E' del 1993-94 il ciclo di dipinti “La zucca di Michelangelo” in mostra a partire dal 3 maggio 2015. Ha lo stesso titolo di una delle opere e tratta dei viaggi di alcune barche-isole.
Realizzati a tempera su cartone telato, i quadri che ne fanno parte sono tutti della stessa orizzontale dimensione. Si presentano – così li avevo immaginati – simili a fotogrammi estratti, tra il numeroso insieme di altri, da una ripresa filmica costante che ha accompagnato la durata tutta dello spostamento dei mezzi dipinti, seguendo il lieve beccheggio del lento e afono tragitto che proseguiva sfiorando lo strato di colore in superficie e le velature dei tremuli riflessi dell'acqua, appena smossa, questa, e non violentemente scomposta. Perché l'acqua e l'aria – con la dichiarata partecipazione affettiva delle barche-isole – di un sicuro aspetto e un tranquillo carattere potessero fregiarsi. Ognuno di questi viaggi si è svolto in un tempo non breve, dato l'avanzamento rallentato dei mezzi che lo stavano compiendo, ha avuto luogo, ovviamente, nell'acqua, probabilmente salata di mare.
Una barca-isola è presente in ogni dipinto; sta trainando uno o più corpi: una zattera, una chiatta, un frutto, una conchiglia, carichi di varia natura; può essere anche un'altra barca-isola, ma senza capacità di moto proprio. Mentre il mezzo che guida e che sta davanti è quasi uguale in tutti i quadri, il secondo elemento, quello che è al seguito per bisogno proprio e altrui accondiscendenza e forza, cambia da un quadro all'altro, ed è al primo appaiato, “ammanettato”. Appare chiaro che il motivo di questo legame c'è, ed è sentito e consensuale: uno dispone di forza trainante, l'altro deve essere trainato, non avendo capacità motoria per poterlo fare di sua iniziativa, ma volentieri si lascia portare se qualcuno ha l'energia che serve ed è disposto a farlo.
In alcuni dipinti l'impianto compositivo e la quantità di elementi che lo costituiscono si differenziano dagli altri; i soggetti riguardano García Márquez, Hemingway, Alessandria, Picasso, Fontainebleau. E poi ce n'è uno che ritrae le onde naufraghe delle quali mi occupavo in quegli stessi anni.
Dei venti lavori che compongono questo ciclo, nel 1994 ne portai a termine tredici, gli altri sette rimasero allo stadio di titoli e disegni su carta. Più volte, negli anni successivi, ho ripreso i disegni per farne dei dipinti e completare così il progetto iniziale, ma poi questo completamento, che in fin dei conti non mi sarebbe costato un lungo periodo di lavoro, l'ho sempre rimandato. Stavolta, con decisione, mi sono spinto a farli; avevo bisogno di vedere il corpus completo appeso ai muri. I lavori che ho realizzato quest'anno non sono su cartone telato ma su cartoncino, la dimensione è sempre la stessa, la tecnica è matita e pastello.
Lo scopo di ognuno di questi viaggi può essere dedotto dal tipo di carico al seguito che viene fatto viaggiare. Ha a che vedere, secondo il dipinto, con letteratura, arti visive, miti, fantasie prese per verità indiscutibili, perché l'assenza della ragione conduce al rifiuto del concetto di sparizione fisica definitiva, facendo credere agli individui che di essi sopravviva più dei resti della loro attività in vita; la cosiddetta civilizzazione è un altro argomento che i dipinti toccano, e le conquiste unilaterali, la storia naturale, l'alchimia. I personaggi che decidendo di spostarsi partecipano a questo gruppo di lavori – tutti nella misura 30x40 centimetri, che in scala ha grosso modo lo stesso rapporto del fotogramma cinematografico – sono Joyce, Böcklin, Adamo, Eva, Colombo, Dostoevskij, la Nike acefala, Fellini, Caravaggio, Michelangelo, una mela, Primaticcio, le brocchiglie, l'Inpupa, l'ombelico e infine la zucca. Alcuni di questi personaggi si propongono direttamente, altri per mezzo di pseudonimi, allusioni, allegorie, metafore, assonanze, echi vari di richiami.
Pare certo che sia una flotta di barche-isole con i rispettivi traini a compiere questi lunghi spostamenti, ma l'ipotesi che invece sia un solo esemplare, ogni volta con un carico diverso, non è neanche da scartare.
L'insieme dei dipinti è strutturato come una sequenza di fotogrammi di un film girato sulle prove di una trasposizione teatrale, che ha come palcoscenico il supporto della pittura costituito da materiali ad hoc: tela e cartone. Nello spazio (quello che per rappresentare la sintesi del fatto e della scena e il fissaggio dell'idea serve e non di più) sufficiente a inscrivere, da una media distanza, l'inquadratura, dando la sensazione esatta di ciò che può capitare d’importante in una parte circoscritta di un luogo aperto, immaginato... visto privo di confini.
Da un dipinto all'altro la barca-isola (che in lunghezza risulta piuttosto contenuta, raccorciata, compressa verso il centro) non presenta variazioni rilevanti, sia nell'albero sia nelle pieghe del drappo-vela, o manto, com'è meglio chiamarlo. Varia la sua dimensione rispetto alla totalità della superficie pittorica concessa all'aria e all'acqua tra le quali essa sta e procede. La variazione è dovuta alla distanza che la separa dall'operatore alle riprese.
Il mare attraversato dai mezzi trainanti, dai carichi e dai sistemi di ripresa, che perciò questi lenti e lunghi viaggi ospita, non sembra ostile. Appare abbastanza calmo in superficie, non proprio liscio come una tavola ma quasi, si suppone che calmo sia anche nel profondo, fin dove arriva la luce e oltre. Se ne deduce che il mare vuole essere nelle intenzioni e nei fatti collaborativo. Dunque ognuno dei viaggi è prospettato senza insidie e impedimenti di sorta. Solcando le acque senza lasciare tracce, all'infuori di quella filmica, da come sono strutturati i dipinti, in un'altra dimensione della pittura, si capisce poi che le barche-isole non concludano i loro viaggi nella destinazione prevista, ma che da questa ricomincino a muoversi per tornare, di nuovo con gli stessi traini e carichi al seguito, al punto iniziale. Come se, distorcendo la flemma che le aveva accompagnate durante tutto il viaggio e che è pronta a riemergere lungo il ritorno, appena arrivate, subitamente, prontamente rimbalzassero dalla città o altro luogo d'arrivo; oppure se, con un inganno, da quegli approdi fossero immediatamente respinte. Ciò succede ogni volta, alla fine di un viaggio. E per il tipo di epilogo che si ripete, gli imperterriti mezzi, con il loro sostanzioso, ostinato carico, senza sosta, senza soluzione di continuità vadano e vengano dagli stessi luoghi. Per giorni (?), settimane, anni, centinaia di anni.
Il cavallo di Troia. Sull'attenti, geniale virgola barocca!. L'isola dello zio di Böcklin. L'uovo di Colombo. Cent'anni di solitudine. Povera mela!. Inpupa (Inferno, Purgatorio, Paradiso). Le isole di Hemingway. La vittoria di F. L’eco di Delvaux. La zucca di Michelangelo. Delitto e castigo. Giara d’Argonauta. L’ombelico di Adamo ed Eva. Porto Ercole. Gesso di Bologna. La sconfitta di S: onde naufraghe. Picasso e basta. La gente di Joyce XVI. Alessandria d’Italia.
Feliscatus