Peter Lindbergh e le donne

Al confine tra realtà e finzione, la fotografia di moda concepita da Peter Lindbergh viene esaltata alla Reggia di Venaria. In un allestimento che mischia sapientemente i piani della verità e quello della bellezza, intesa come la massima ambizione umana.

Se la moda promuove un sogno, più che un prodotto, la fotografia di moda così come concepita da Peter Lindbergh (Lissa, 1944) ne ha espresso la massima utopia: essere una donna da sogno, senza necessariamente avere indosso chissà quale outfit.
È con una serie di scatti in particolare che Lindbergh segna una svolta nella scena internazionale; fotografie che troviamo agli inizi del percorso espositivo della mostra in corso presso le Sale delle Arti, alla Reggia di Venaria. Ci riferiamo a un servizio realizzato nel 1988 per Vogue America (che non lo apprezzerà), in cui sei modelle vestono tutte camicie bianche. Solo un capo, neppure squisitamente femminile, sullo sfondo di una spiaggia di Malibu.
Due anni dopo Lindbergh terrà a battesimo l’estetica degli Anni Novanta e delle supermodelle, portando – tra le altre – delle giovanissime Naomi Campbell, Linda Evangelista e Cindy Crawford nella New York “downtown”, dove le lettrici di Vogue non si sarebbero mai avventurate. Il fotografo priva così il mondo del fashion della sua più potente arma di seduzione, lo status symbol, suggerendo che la bellezza ha a che fare con la personalità e l’abbigliamento ne è la manifestazione.

AUTENTICITÀ E ARTIFICIO

La mostra ideata dal Kunsthal di Rotterdam, con il curatore Thierry-Maxime Loriot e Peter Lindbergh stesso, verte tutta sull’anticonformismo del fotografo nell’approccio al genere: invece della perfezione – raggiunta a colpi di fotoritocco – Lindbergh insiste sul carattere del soggetto. Difficile concordare in tutto e per tutto con la lettura critica proposta, quando arriva a parlare di “verità” per una fotografia che resta legata inevitabilmente a un preciso sistema di valori, veicolando un messaggio nemmeno troppo sibillino. Perché, qui, qualunque atteggiamento “deviato” deve comunque essere assimilato in un universo dove la bellezza (se puoi permettertela) trionfa su qualsiasi male della società. Anche le “sentenze” di Jenny Holzer, pur introducendo la protesta e la ribellione al sistema, restano “elementi di scena” prestati alla figura mozzafiato di Milla Jovovich per il servizio New Age of Couture pubblicato su Vogue Italia nel 2012.
Non si vuole con ciò sminuire il carattere rivoluzionario della poetica di Lindbergh, al contrario si intende evidenziarne il maggior pregio: la coraggiosa affermazione di un sé che non è “vero”, ma è lo stesso autentico. Del soggetto, Lindbergh sceglie la migliore delle autorappresentazioni, liberandolo da ogni limite accidentale – compreso quello di genere. Come chiosa la transessuale Agrado in Tutto su mia madre di Pedro Almodóvar: “Costa molto essere autentica, […] perché una è più autentica quanto più somiglia all’idea che ha sognato di se stessa”.

Peter Lindbergh, Milla Jovovich, Paris, 2012, Vogue Italia © Peter Lindbergh, courtesy of Peter Lindbergh, Paris & Gagosian Gallery, Chanel haute couture, FW 2012 2013

Peter Lindbergh, Milla Jovovich, Paris, 2012, Vogue Italia © Peter Lindbergh, courtesy of Peter Lindbergh, Paris & Gagosian Gallery, Chanel haute couture, FW 2012 2013

IL LAVORO DIETRO LE QUINTE

La costruzione di questo affascinante sogno collettivo è appunto uno degli elementi su cui l’esposizione risulta più esauriente, portando alla Venaria Reale un notevole apparato documentario fatto di provini a contatto e polaroid, storyboard e appunti autografi.
Il confine tra autentico e artefatto è così ben giocato, anzi, che alcuni degli allestimenti attraversati dallo spettatore riescono a informarlo di quanto succede nel backstage ‒ la camera oscura, l’archivio dello studio fotografico –, pur essendo palesi ricostruzioni. L’estetica del what if è alla base di “questa” fotografia di moda, strutturata da Lindbergh attorno a elementi di realtà che però vengono orchestrati in una narrazione alternativa, dove tutti ci troviamo a desiderare di vivere. Un meccanismo che avvicina il fotografo al cinema e ancor più alla danza, la cui ambizione è in fondo quella di portare il corpo – elemento che più reale non si può – a nuovi, impensati traguardi. E non è un caso che proprio la sezione della mostra dedicata ai tanti ballerini e coreografi ritratti da Lindbergh – da Pina Bausch a Madonna, allieva di Merce Cunningham – sia forse la più potente di tutto il percorso espositivo.

PAROLA A PETER LINDBERGH

Benché sia tra i fotografi di moda più pagati, Peter Lindbergh non si è mai considerato soltanto un fotografo di moda. A 73 anni si sente finalmente libero: di creare, di cambiare idea e, perché no, di sbagliare. Alla fine degli Anni Ottanta il suo naturalismo stravolse i canoni della moda, dando volto e personalità alle modelle e celebrando la bellezza come libertà.

Dopo tanto lavoro, ecco la sua grande retrospettiva, portatrice di una certa idea della moda.
In principio ero scettico, nella vita ho cercato di essere il meno possibile fotografo di moda, ma non ci sono riuscito molto bene.

La prima sezione della mostra è intitolata Super model, con le sue ragazze: da Naomi a Claudia, da Cindy a Silvia fino a Kate. Ormai basta il nome, sono celebri come pop star.
Ho lavorato in un momento storico in cui la bellezza e la personalità delle modelle è balzata in primo piano, però il mio lavoro è sempre stato in relazione con i cambiamenti sociali e con una certa idea di femminilità.

Lei è il cantore dell’autenticità, quasi più un fotografo di architettura come un Gabriele Basilico o i coniugi Becher, più che un fotografo di moda. È riuscito a ritrarre le più belle donne agée così come sono, senza trucchi, una carrellata di volti scultorei, architettonici.
In un’epoca in cui Photoshop permette di togliere anni e levigare volti, l’idea di mostrare la verità del tempo che passa su tutti noi sembra sempre più scandalosa.

Ma ne ha fatto il tratto distintivo di uno stile, fedele al rigore del bianco e nero.
Nasce da una visione differente, influenzata dal cinema espressionista tedesco degli Anni Trenta e dalla fotografia in bianco e nero degli anni della Grande Depressione americana.

C’è un senso di responsabilità che coinvolge lei e i suoi colleghi?
Quando fotografi non lo fai mai nel vuoto, ogni volta che scattiamo una foto creiamo una dimensione.

Che rapporto ha con l’età e il tempo che passa?
Una mostra come questa è capace di farti sentire molto vecchio ed è esattamente così che mi sento, ma va bene.

Perché?
Nell’invecchiare perdi l’ansia e la rabbia e se fai un errore lo riconosci più in fretta, chiedi scusa e se ti vien voglia di cambiare idea lo fai in modo libero.

Come giudica la fotografia di moda attuale?
Ho una visione molto critica rispetto quello che stanno facendo i mass media e il mondo della moda riguardo all’immagine della donna.

Peter Lindbergh, Robin Wright, Mesnil Saint Denis, 2010. Vogue Italia © Peter Lindbergh, courtesy of Peter Lindbergh, Paris & Gagosian Gallery

Peter Lindbergh, Robin Wright, Mesnil Saint Denis, 2010. Vogue Italia © Peter Lindbergh, courtesy of Peter Lindbergh, Paris & Gagosian Gallery

Nel 1988, quando ha iniziato, il suo stile non era contemplato.
Dovevo spiegarlo, cercare di farmi capire. Il direttore di Vogue America di allora, Alexander Liberman, mi chiamò e mi chiese di fotografare una modella seguendo lo stile delle copertine di allora. Molto trucco e poca naturalezza. Gli dissi: così non posso farlo. Non avevo l’ispirazione e il contesto sociale cui quelle copertine rimandavano non mi apparteneva.

Così è nato lo scatto più iconico della sua carriera, che ha lanciato sei delle top model che avrebbero poi cambiato la storia della fotografia di moda, sbaragliando le mannequin anonime e diventando vere star delle passerelle e personaggi pubblici.
Quando fotografi devi essere il più vero possibile, devi essere coinvolto. Così scelsi le modelle e volai a Los Angeles per scattare sulla spiaggia. Erano vestite con camicie bianche, era la mia definizione di donna: semplice e libera.

Uno scatto di gruppo come ne farà tanti durante la carriera. Bellezze sorridenti e divertite, trasmettono cameratismo, senso di gruppo: una visione poco individualizzante anzi comunitaria, molto tedesca.
Quando studiavo alla scuola d’arte a Berlino fui colpito dal coraggio con cui le giovani studentesse cercavano la propria strada, volevano realizzare il sogno di diventare artiste. Mi piace la donna che non ha paura d’impegnarsi per ottenere ciò che vuole.

È una donna emancipata.
Ma anche candida. Provenivano quasi tutte dalla Scandinavia e non s’interessavano affatto del proprio modo di vestire. Ho iniziato ad ammirare quel tipo di donna e non ho più smesso.

Glielo chiedono sempre, ma cos’è la bellezza per Lindbergh oggi?
Ci ho pensato molto, è tutto ciò che ti dà il coraggio di essere te stesso, in ogni momento, nulla di più.

Caterina Porcellini e Nicola Davide Angerame

Articolo pubblicato su Grandi Mostre #7

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Caterina Porcellini

Caterina Porcellini

Caterina Porcellini è nata a Taranto, si è formata al DAMS di Bologna e professionalmente a Milano. Già durante l'università sviluppa un interesse per l'influenza esercitata dalla tecnologia su pensiero e società, attraverso le tesi di Marshall McLuhan, Walter J.…

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